martedì 30 giugno 2009

NUMERO VENTIQUATTRO

NON PUO' PIOVERE PER SEMPRE

Ancora mi ricordo il sole che mi accompagno' in aeroporto al momento di ripartire da Copenhagen, all'incirca un anno fa. Proprio in Danimarca formluai la teoria »dell'ultimo saluto«: se prima di partire splende il sole, significa che la citta' si veste a festa per ringraziarti di tutto, per salutarti e per augurarti buon viaggio. Stavo pensando proprio questo al momento di addormentarmi nella mia ultima notte belgradese, giusto qualche ora prima di essere svegliato dai tuoni e dalla pioggia che, abbondante, scorre lungo le grondaie. Sono le otto. E diluvia.

»E cosa ti aspettavi, un applauso? Hai passato almeno quattro mesi della tua vita a infamare tutto e tutti e questo e' quello che ti meriti...« penso malinconicamente, mentre mi avvio verso la banca e mejaćnica per espletare le ultime formalita' burocratiche. »Non l'ho fatto con cattiveria, e' solo che qu ho avuto tutti i problemi possibili e immaginabili, per di piu' a distanza ravvicinatissima...«. Niente da fare, continua a diluviare.

Sulla strada del ritorno a casa, saranno le nove e venti, la pioggia si affievolisce. Anche Federico deve sbrigare alcune faccende burocratiche sicche' non c'e' molto tempo per le cerimonie: compro i panini, salgo in casa, inforco i bagagli, montiamo in macchina e via verso la stazione. Sono le dieci, al treno manca mezzora e non piove piu': ho tempo di illustrare a Federico la teoria »dell'ultimo saluto«. Concorda, e rilancia: »Ma non vedi che ora c'e' il sole?«. Sono le dieci e venti, mancano venti minuti alla partenza.

Ecco, il clima della mia ultima mattinata belgradese riflette bene il mio percorso: un inizio duro e tempestoso, in cui tutto era difficile e molto era deprecabile, poi il duro adattamento, con annessa accettazione della realta', poi l'adattamento, infine l'inserimento. Ogni esperienza di vita, specialmente all'estero, ha di per se molti aspetti positivi. E al momento posso dirmi contento di aver attraversato tutte le fasi del cosiddetto »cultural shock« del quale molti psicologi parlano: entusiasmo, delusione, rabbia, accanimento, rivalutazione, tolleranza, adattamento, infine piena soddisfazione.

La sfida delle prossime puntate e' raccontare il passaggio dal malessere diffuso fino al benessere generalizzato. Perche' negli ultimi periodi ho conosciuto molta gente, la quale rimane spiazzata di fronte alla lettura degli ultimi post. Cosi come molti abituali lettori rimangono sorpresi alla notizia che – udite udite – ci sono buone possibilita' che da settembre possa nuovamente ritrovarmi a Belgrado.

Ed e' dalla piena soddisfazione di cui sopra chje intendo ripartire. Ma non ora, ho sonno e vado a nanna.

martedì 19 maggio 2009

NUMERO VENTITRE'

AMARO IN BOCCA. NON E’ JEGERMEISTER NE’ MONTENEGRO

E’ una sensazione che conosco, ci son già passato. Detestare una città, soffrirla, odiarla. E rendersi conto di trovarcisi bene quando ormai è tempo di preparare armi e bagagli. Viaggiare apre la mente e mettere in fila esperienze di vita in giro per l’Europa è simultaneamente entusiasmante e interessante. Dà stimoli, fa crescere, allarga le vedute.

Sinceramente la mia vita non mi dispiace: anche se ovviamente non sono solo rose e fiori. Saltare di città in città dopo un po’ logora. Ogni volta che si ricomincia ci si butta a capofitto in una nuova avventura, in una nuova realtà e gli stimoli certo non mancano: non mancano energie, curiosità e voglia di cominciare. Ma allo stesso tempo logora perché ambientarsi è faticoso e richiede tempo, pazienza e una buona dose di fegato. Lo sforzo ovviamente si monetizza nella prospettiva di lungo periodo, che al momento manca (sto infatti saltando di nazione in nazione, di città in città nel giro di relativamente pochi mesi e non certo in condizioni da pashà).

Mi sento anche un po’ sfortunato, perché devo ammettere che Belgrado è anche divertente, specie di notte. Sfortunato perché da un mese a questa parte mi manca un socio, una spalla, uno che mi segua, uno che abbia voglia di divertirsi con me. Quello che avevo si è praticamente “sposato”. Ogni volta che gli propongo di uscire ha sonno, invita sistematicamente la donna in casa e preparano assieme i dolci e le torte (è molto entusiasta di aver comprato una bilancia per dosare gli ingredienti ed è molto orgoglioso di quanto i dolci gli vengano bene: devo ammettere che ha ragione ed è veramente bravo a cucinare). Non esce mai e quando esce è sonnolento: passata la mezzanotte è coprifuoco, sicché si torna a casa. Alzi la mano chi non ha mai visto una parabola simile su almeno uno dei suoi amici.

Se dovessi partire domani, riporterei la sensazione di non aver vissuto fino in fondo questa città. Di non essermi divertito abbastanza. Di non essermi goduto fino infondo lo Stefan Braun e il Tramvaij (due discobar carini e ben frequentati). Ce l’ho messa tutta, mi sono impegnato, ma tutto sembrava essere contro di me. In tutte le precedenti avventure oltralpe, son sempre riuscito a combinare il lavoro, la produttività, con il divertimento. Cosa impossibile a Belgrado: città ricca di possibilità di svago ma nella quale lavorare è tendenzialmente impossibile. La produttività in un certo senso non è mancata, ma il paradossale prezzo pagato è la cancellazione dello svago dalla mia agenda. Cosa che mi dispiace. Capita, non si può avere tutto.

E capisco anche la differenza tra il mio punto di vista critico sulla città e quello apologeta degli altri italiani. Loro vivono con stipendi italiani, cosa che permette abbastanza agilmente di far la bella vita bypassando in scioltezza le criticità del sistema. Cosa che gli permette anche di coniugare produttività e divertimento. A stipendi italiani si vive in centro, si ha una casa propria, si mangia fuori se si ha voglia, ci si muove in taxi. Con le borse di studio del governo serbo si vive in uno studentato (non esattamente in centro), si mangia nelle mense universitarie e si vive in una camera doppia con uno straniero.

Certamente tu starai pensando che“Lo studentato però è pieno di studenti, il che offre dei vantaggi…”. Si, ma è pieno di studenti serbi. Studenti che arrivano dalla campagna, che faticano a parlare inglese con gli stranieri (a propositoin Serbia gli stranieri sono “strangers” e non “foreigners”) e che non concepiscono l’inglese con accento italiano. Studenti che, viste le origini paesane, non sembra vero di vedere così tanti altri giovani (serbi) tutti assieme. Studenti per cui è probabilmente costoso anche lo stare fuori di casa, il non-lavorare per studiare. Studenti che se non tengono una buona media vengono espulsi dallo studentato (il che rappresenta una tragedia per le loro finanze). Studenti che perciò trovi in aula studio nelle ore più assurde (a mezzanotte di sabato, alle quattro di mattina di domenica). Studenti che non si rendono conto che uno straniero possa studiare in Serbia anche senza parlar serbo (per la mia inchiesta è sufficiente un formulario tradotto!). Studenti che raramente escono dallo studentato, studenti che passano i loro pomeriggi e le loro serate giocando a pallavolo nel cortile, parlando sistematicamente in serbo, ascoltando musica serba, bevendo birra coi serbi. Non per niente siamo in Serbia.

Con tutto il rispetto, cosa avrò mai da spartire io con un ragazzetto di Kraguievac? Di Valjevo? Di Vranje? Di che parlo con questa gente qua? Di Copenhagen? Di Europa? O dei venti anni che separano Belgrado dal resto d’Europa? Se vuoi essere amico dei serbi devi fargli complimenti: loro sono capaci di fare tutto e qualsiasi cosa tu sappia fare loro la sanno fare meglio di te: quando parli non ti ascoltano nemmeno, hanno già capito, per cui ti liquidano relativamente con un rassicurante “nema problema”.

Ma quando senti “nema problema” preparati, il problema ci sarà e si presenterà quando meno te lo aspetti, cioè quando lui dovrà fare ciò che gli hai chiesto, qualsiasi cosa sia. E lui o non ha capito, o fa finta di non capire. In ogni caso non muoverà un dito. Ovviamente la causa di tutti i mali serbi e' esterna, e sono i bombardamenti: sì, hanno causato anche il cambiamento climatico, come mi diceva una cara amica serba.

C’è delusione e anche un po’ di stanchezza in queste righe. Sabato c’era la “Notte dei Musei” qui a Belgrado, una sorta di notte bianca con musei, eventi e mostre in giro per la città. Mentre raggiungevo l’Istituto per un breve turno di supporto, pensavo a cosa fa rimpiangere Bucarest una volta giunti a Belgrado. Un’ora e cinque minuti per coprire 4.5km circa è un tempo interessante: abito vicino a una piazza capolinea di tre linee di filobus, che non sono partiti per più di 35’. Quelli che partivano non raccoglievano i passeggeri ma puntavano dritto al garage. Nessuna spiegazione, nessun avviso, niente di niente. Solo tanti serbi che accettavano passivamente il tutto. Le quattro linee di metropolitana di Bucarest rimangono un sogno per Roma e una remota chimera per Belgrado.

Amen.

martedì 12 maggio 2009

NUMERO VENTIDUE

BUCAREST, BELGRADO, KIEV E IL SILLOGISMO ARISTOTELICO

Circa trent’anni, barba incolta, sorriso spontaneo e battuta pronta: Marco vive a Kiev, ma è venuto a Belgrado in vacanza. Noi tutti pendiamo dalle sue labbra, ponendogli migliaia di domande sulla vita in Ucraina, sugli ucraini e soprattutto ovviamente sulle ucraine. E lui non riesce a sputar fuori una sola cosa positiva né della città né delle sue genti Ha vissuto a Belgrado per nove mesi, gli manca e la rimpiange.

Io invece non avrei mai avrei pensato di rimpiangere Bucarest. Poi sono venuto a Belgrado.

Pensa Kiev, diranno i miei lettori piu' arguti: “Bucarest sta a Belgrado come Belgrado sta a Kiev quindi Bucarest sta a Kiev…”

No, ragazzi, no: il sillogismo aristotelico è inverosimile. La domanda che mi faccio è piuttosto un’altra: riuscirò a rimpiangere anche la Serbia? E cosa rimpiangere di Belgrado? Il sistema dei mezzi di trasporto? L’umiltà? L’ “apertura mentale”? L’efficienza cronica?

E ragiono su quanto siano influenti le aspettative nelle esperienze all’estero (ma forse nelle esperienze in genere). E mi tornano in mente le parole di Marco: “Dopo aver vissuto a Belgrado, sono andato in Albania, ma nemmeno a Tirana, a Scutari, mica a Los Angeles, prima di andare a Kiev: pensare che ho fatto di tutto per andarci, stravedevo per l’Ucraina. Quindici giorni fa ho deciso che Kiev non fa per me e che gli ucraini non mi piacciono, mentre prima mi dicevo “boh, forse sono io…”. Sono chiusi, maleducati ed è impossibile farci amicizia: tutti gli stranieri che conosco non si trovano bene e non hanno amici ucraini, anche quelli che vivono lì da un pezzo e che si sono anche sposati…”.

In Romania imparai che sarebbe bene non farsi troppe aspettative prima di partire per l’estero: arrivai in Lituania senza aspettative e fu un trionfo, arrivai a Bucarest carico di aspettative e furono alti e bassi, arrivai a Copenhagen con qualche aspettativa e rimasi sorpreso del vedere deluse le aspettative ma nel trovare sorprese laddove le aspettative mancavano. Prima di partire per la Serbia sapevo benissimo che bisogna girare alla larga dalle aspettative, ma probabilmente lo sapeva anche Marco prima di partire per Kiev, ma ci siamo cascati entrambi. Facile a dirsi ma non a farsi, mi viene da pensare.

E ragiono infatti sul pre-partenza serbo, ripensando ai dieci contatti che avevo in Serbia: tutti ragazzi conosciuti in giro per seminari in Europa, ragazzi con i quali ci si ritrovava a far casino assieme, alla faccia degli smorti scandinavi e degli ubriaconi tedeschi. Ragazzi con il comune spirito “sud europeo”, con i quali ci si trovava bene. Ragazzi che ti avevano dipinto Belgrado come una città capace di vivere la vita e di divertirsi, una città che non dorme mai, una città festaiola, ricca di vita notturna. Una città nella quale ti troverai benissimo, ragazzi con i quali mi ero lasciato con un “dai, ci vediamo a Belgrado…”.

Ragazzi che non si son piu' visti, ragazzi che sono spariti, ragazzi che non hanno mai chiamato, ragazzi che se li hai chiamati non ti hanno risposto.

Ragazzi che evidentemente “hanno sempre da fare”: ma che cazzo avranno mai da fare i
belgradesi se a Belgrado non funziona niente? Che fanno i belgradesi? Niente. Anzi, una cosa la fanno: bevono il caffè (le piante si annaffiano con l’acqua, i belgradesi bevono il caffé). Belgrado è una città basata sul caffè (e allora mi chiedo se anche le piante vengano annaffiate col caffé). Ragazzi che evidentemente bevono caffè, ma a cui evidentemente non importa di berlo con te (tanto in qualche modo te la caverai). Secondo me non è la cattiveria il problema, il problema è evidentemente ai simpatici serbi pesa anche scrivere un sms, un messaggio su Facebook o fare una telefonata di invito. Diciamo che se non hai voglia di fare un cazzo, Belgrado è la città che fa per te e i belgradesi ti piaceranno.

Domenica in un parco cittadino scoprivo il modo in cui i serbi vanno sui roller-blade: una volta indossati, si aggrappano al motorino guidato da un amico e – respirando a pieni polmoni il gas di scarico – se la viaggiano sulla pista ciclabile.

Non è esattamente salutare ma vuoi mettere l’energia che sprecherebbero per pattinare?

giovedì 30 aprile 2009

NUMERO VENTUNO

COME DICEVA LUBRANO…

Quando si capiscono le regole che governano la metropolitana, si capisce molto di un popolo e di una nazione. Era così a San Pietroburgo, dove tutto il vagone rideva in faccia alla svampita turista italiana che realizzava di esser stata derubata nel momento in cui saliva sul treno. Era così a Copenhagen dove la regola del lasciar scendere prima di salire non viene intaccata nemmeno da passeggini e biciclette, spostati con disciplina dagli schivi passeggeri che scelgono il posto più isolato e lontano dalle altre anime vive.

E’ così anche a Milano dove i locali camminano con celeberrima rapidità togliendo le scarpe ai neofiti prima di urtare sul solito gruppo che si perde di fronte allo svincolo tra Molino Dorino e Sesto, impallano il traffico di chi proviene dalla gialla. La metropolitana di Bucarest è invece uno spasso. Nemmeno il tempo di annunciare la fermata, che i passeggeri in discesa già fanno la danza maori: sanno che li attende una battaglia per scendere e non sono disposti a lesinare nemmeno un grammo di energia per centrare l’obiettivo. Dall’altra parte il rumore del treno che arriva è percepito come il suono del corno che precede la battaglia: i passeggeri in attesa sanno che li aspetterà una battaglia e non sono disposti a lesinare nemmeno un grammo di energia per centrare l’obiettivo. Il risultato? Non appena le porte si aprono e' guerra, in quanto gli obiettivi degli uni e degli altri collidono. Inutile dire che vale tutto, contro il principio della fisica che direbbe che se uno spazio è occupato da un corpo, non può essere occupato simultaneamente da un altro corpo.

Ma la fisica a volte non funziona. E qui siamo – manco a dirlo – a Belgrado. E’ difficile spiegare come sia possibile, ma certe volte, dopo dieci minuti buoni di attesa, la banchina è gremita. Caracollando lemme lemme, ecco un tram che arriva laggiù infondo. E’ pieno di gente, ovviamente, perché i passeggeri in attesa si sono accumulati. Ne scendono due, ne salgono diciannove: non so dove si mettano, forse c’è un doppio fondo. Ma alla fermata dopo, come per magia, ne scenderanno ancora tre e ne saliranno ventisette, e non capisci nemmeno da sopra dove finisca la gente. A Belgrado i mezzi pubblici – ammesso che passino – si fermano obbligatoriamente a tutte le “stazioni” (stanize, secondo la favella locale), a tutte le ore in tutte le condizioni atmosferiche. L’idea è quella di consentire ai passeggeri di scendere con calma ed evitando a chi aspetta di sbracciarsi alla fermata per richiamare l’attenzione del conducente. Ovviamente non e' necessario suonare il campanello per richiedere la fermata.

Ma non va sempre così liscia. Perché un po’ come le vecchiette di Milano, che si preparano dieci fermate prima per non rimanere ingabolate nel traffico umano, anche a Belgrado capita sempre di imbattersi in una stuola di imbecilli che si ferma giusto davanti all’apertura delle porte, con il risultato di produrre ingorghi e congestioni incredibili anche con il mezzo praticamente vuoto. Il sogno del passeggero medio belgradese in discesa, di fronte alle porte che si aprono, è quello di vedere due ali di passeggeri in salita che si allargano e di trovare un corridoio centrale per uscire e allontanarsi. Diciamo che sogna di essere Pirlo che sta per calciare un rigore a porta vuota.

E invece sa che all’apertura delle porte si sentirà un po’ come Pirlo ma quando batte una punizione da limite: troverà infatti a un metro dalle porte, una fitta barriera umana composta da sciure, vecchi, giovani e meno giovani, disposti uno accanto all’altro lunga praticamente tuta la lunghezza del tram. La conseguenza è che chi vuol scendere, una volta fatto l’ultimo scalino, non mette il piede a terra ma sulla caviglia del Pirlo prima, che nel frattempo si è infranto sulla barriera, che si e' aperta. Chi è in barriera invece, manco avesse sentito il fischio dell’arbitro, si scaraventa incontro al Pirlo di turno e agguanta il corrimano per salire, in barba ai cinquanta passeggeri che tentano di scendere. Anche qui è baruffa, tuttavia va detto che il tutto si svolge pacificamente: normalmente nessuno si fa male e nessuno si lamenta più di tanto.

Perché non ho descritto la metropolitana belgradese come ho fatto per le altre città? Semplice, perché a Belgrado l’unica linea metropolitana – lungimirante e capillare - collega A a B, con un’utilità difficilmente quantificabile. Ovviamente non l’ho mai presa, anche se passo praticamente tutti i giorni attraverso il sottopassaggio di una delle due fermate per attraversare un grosso incrocio.

E’ molto nuova e moderna, con indicazioni precise e bilingui. Ana la descrive così: “E’ l’ennesima grande opera di Milosevic, costosa, sfarzosa e inutile: l’unica che l’ha usata è Ceca per un video”. Ceca (per la cronaca si legge Zeza), tanto bella quanto artificiale, è una cantante dal passato vagamente burrascoso (è la ex moglie di Arkan) e con qualche problemino con la giustizia, che di tanto in tanto riaffiora. Non è impossibile pensare che la sfarzosa fermata di Vukov Spomenik (a dispetto del nome poco amichevole, è in realtà un parco grazioso che ospita una residenza universitaria e due statue, una di Vuk Karadizic, il quale riformo' l'alfabeto cirillico introducendo la variante serba, e una di Cirillo e Metodio, inventori dell’alfabeto glagolitico, il piu' antico alfabeto slavo conosciuto).

E ripensando alle curve di Ceca, la domanda sorge spontanea: ma perché i serbi, quando incrociano una bella serba, non si girano mai a guardarle il culo?

lunedì 27 aprile 2009

NUMERO VENTI

DAL CUORE SERBO ALLA CAVIGLIA ITALICA

“Milosevic? Avrebbero dovuto dargli il Nobel per l’ecologia: durante le sanzioni si è bloccata tutta l’economia, fabbriche comprese, sicché i fiumi son tornati a essere assolutamente puliti”: sorride il padrone di casa, indicando il fiume che, beato e tranquillo, scorre alle sue spalle. Siamo a pochi passi da Ada Ciganlija, ospiti a pranzo dalla famiglia di Lana e Vanda, due studentesse di italiano, che possiede un piccolo splav sulla Sava.

Nemmeno il tempo di arrivare e consegnare un mazzo di fiori alla signora, che ci si ritrova a brindare con un bicchiere di rakia: da queste parti la grappa è un aperitivo, per cui va gustata a stomaco vuoto per godersi il pasto. Tempo di dar un po’ di briciole di pane in cibo alle papere, ai cigni e alle anatre selvatiche che accorrono numerosi, che il cibo è pronto. Benché tutti avessero messo le mani avanti con un “non è facile cucinare la pasta agli italiani”, in realtà gli spaghetti al ragù, per quanto l’abbinamento possa sembrare bizzarro, sono decisamente buoni: “scusateci, ma noi li condiamo con il ketchup e li mangiamo assieme all’insalata” dicono sorridendo i nostri commensali. E dopo l’insalata – come per magia – arrivano una torta di formaggio, salame bulgaro e montenegrino, petti di pollo, uova sode, prima della torta gelato, guarnita con gelato e marmellata. Il tutto in dosi più che abbondanti.

Ovviamente si parla molto di quanto sia splendida l’Italia, del talento di Carosone; poi ci raccontano anche del loro ristorante e di quando – durante le riprese di Quo Vadis – Massimo Ranieri e Sofia Loren cenavano da loro. E di quanto Ranieri apprezzasse sia la discrezione del ristoratore (che tenne lontani giornalisti e curiosi) che la palacinka (pancakes o crepe), ribattezzata da Ranieri “paladieci!“. “Non dovevate disturbarvi così tanto” dice Federico ai genitori, ma la mamma, con aria bonaria, ci risponde che “le nostre figlie ci hanno parlato bene di voi, hanno detto che siete due ragazzi bravi e colti, per cui per noi è un piacere…”. “Cultura? Non basta lavorare all’Istituto di Cultura per essere uomini di cultura!” irrompe il padre: risate generali. Io e Federico sottoscriviamo e condividiamo.

E mentre il padre torna a lavorare sullo splav (che è nuovo, ma da ristrutturare), Vanda e Lana lavano i piatti mentre la madre porge a me e a Federico due sdraio, un tavolino con dolci fatti in casa e due caffè turchi. Chiediamo se serve aiuto, ma ci intimano di rimanere seduti a goderci il sole manco fossimo autentici belgradesi. Ci guardiamo increduli pensando a quanto sia dura la vita degli insegnanti di italiano…a Belgrado! Sorridiamo pensando a chi passa le sue giornate archiviando fatture, facendo fotocopie e incrociando tabelle di excel, magari in un umido ufficio italiano. La musica tranquilla in sottofondo, il riflesso del sole sul lago, la pace regna sovrana. Al momento dei saluti arriva l’invito per la replica: “passate pure a trovarci, noi siamo spesso qua: la prossima volta portate il costume, abbiamo una barca e andiamo a fare un bagno al largo!”.

Pensare che avrei voluto scrivere un post sulla supponenza con la quale i serbi ridono quando gli si dice che “noi si va a Zagabria per il weekend”: “ma che ci vai a fare? E’ piccola, noiosa, non succede niente!” e poi i croati parlano sempre con la “gl” dicendo Mgliiiiieco e non Mleco (che poi significa latte). O della leggerezza con le quali i serbi ridono ogni volta che vengono nominate “Romania” e / o “Bucarest” (da queste parti non è chiaro che il mercato romeno, parte dell'Unione Europea, e' circa il quadruplo – sicuramente più del triplo – di quello serbo e che Bucarest, città con quattro linee di metropolitana, è circa il doppio di Belgrado.

Ma non ci sono riuscito. La Serbia è davvero un paese strano, senza mezze misure. Un paese immobile, statico, lento, rilassato, conservatore, contadino, provinciale. Ma anche un paese popolato da gente semplice, genuina e dal cuore grande e buono. Un paese relativamente povero ma al contempo sicuro e privo di criminalità. Un paese che vive e lascia vivere. Un paese che trova sempre una soluzione e non perde occasione per sorridere, per godersi la vita, per gioire delle piccole cose. Un paese pieno di giovani donzelle che, in tempo di primavera, complice il caldo, diventa difficile da gestire.

Un paese nel quale il nostro eroe ha addirittura ricominciato a fare sport, dopo la borsite degli scorsi mesi. Un paese che sabato sera al Plastic (come definirlo…Discoteca? Carnaio? Senza musica serba? Ci piace, anche se il celeberrimo omologo milanese sembra abbastanza diverso per impostazione e struttura) ho incontrato tre studentesse del gruppo principianti (sono incredibilmente riuscite ad azzardare una presentazione più che decente al Federico, colpito soprattutto dall’amica delle due). Un paese nel quale si pensa polemicamente che d'accordo che con i se e con i ma non si scrive la storia, tuttavia senza quel gol di mani di Adriano e senza la rapina di Siena...

martedì 21 aprile 2009

NUMERO DICIANNOVE

A SPASSO NEL TEMPO TRA LJUBLJANA E BELGRADO

Splende un bel sole e la temperatura è gradevole: atmosfera tranquilla, c’è aria di festa. Le strade sono gremite di polizia, che stende transenne, stoppando e deviando i veicoli: è sabato e si corre la maratona di Belgrado. Tutto sembra ordinato e tutto fila liscio sicché alle 10.30 ci si ritrova – prodotti della Pekara (forno) alla mano – a bere un caffè in un autogrill dell’autostrada, diretti in Croazia. Un po’ come in ritorno al futuro, con Federico nei panni di Doc e una 156 nera a fungere da macchina del tempo, nel giro di qualche ora (accompagnati dall’inconfondibile sound degli Elio e le Storie Tese) ci si ritrova a Zagabria, a circa 10 / 15 anni da Belgrado.

Pulita e ordinata, Zagabria è più Ljubljana che Belgrado: si respira un’aria europea, non solo per le bandiere blu con le stelle gialle che fanno capolino accanto a quelle locali. Privo di Jugo e Zastava (ma anche di Dacia) il traffico zagabrese sembra disciplinato nonostante noi ce la si metta tutta per rimediare una multa, tagliando involontariamente un semaforo palesemente rosso parcheggiando due minuti dopo in sosta vietata, ovviamente sotto gli occhi di un iper-ragionevole poliziotto che si limita a un perentorio rimprovero. Tram colorati e nuovi sfrecciano tra le fermate dotate di tecnologici pannelli che indicano i tempi di attesa delle varie linee: per fare il biglietto è sufficiente scrivere un sms. Elegantissimi anche i cani, tutti con collari e giacchine.

Sul tetto della chiesa di San Marco capeggiano i loghi del comune e della Croazia, disegnati da un caratteristico mosaico di tegole: siamo nella piazza principale della parte alta della città, da una parte c’è il Parlamento, dall’altra il Governo, mentre il comune dista poche decine di metri. A pochi passi dalle stanze dei bottoni, c’è un parco con una vista a 180° sulla città: le guglie della cattedrale tipicamente gotica (Santo Stefano d’Ungheria, che ricorda vagamente Notre Dame) dominano il panorama, composto essenzialmente da palazzi e palazzoni, edifici in mattoni e, qua e là, qualche chiesa (anch’esse in mattoni con campanili appuntiti: ricordano vagamente le chiese luterane danesi). Dal monumento equestre, fulcro della piazza Ban Jelačić – la piazza principale nella parte bassa – partono due caratteristiche viette piene di bar, pub, locali e ristoranti, fulcro della movida zagabrese: una si arrampica fino alla parte alta (in alternativa c’è una comoda funicolare) mentre l’altra porta alla cattedrale, attraversando la piazza del mercato. A pochi passi c’e’ un altro caratteristico mercato dei fiori.

Probabilmente il serbo non è la lingua migliore per approcciarsi alla gente, pena il siciliano “nzu” con il quale uno svogliato cameriere risponde alla domanda “possiamo pagare in Euro?”: benché seduti al tavolo di una pizzeria in pieno centro, il suddetto cameriere rifiuta anche di approcciarsi al tavolo per prendere le ordinazioni. Il senso di marketing non sembra esattamente sviluppato: se sabato pomeriggio molti negozi del centro sono chiusi manco fossimo a Copenhagen, la domenica l’iper-moderno centro commerciale rasenta il ridicolo, in quanto il complesso è aperto ma le saracinesche dei negozi sono sistematicamente abbassate.

Una delle prime connessioni che il viandante italico fa con la Croazia e’ il calcio, per cui uno dei primi nomi che vengono in mente è sicuramente quello di Zorro Boban: dopo una brillante carriera costellata di trionfi e trofei internazionali in maglia rossonera, Zvone ha deciso di appendere le scarpette al chiodo, ritirandosi dalla scena pubblica e dedicandosi prevalentemente alla famiglia. Ma anche alla gastronomia: il suo caffè-ristorante – che ovviamente porta il suo nome - propone prezzi ragionevoli, atmosfera elegante, servizio puntuale e – cosa fondamentale – cibo ottimo. Non lontano dal ristorante Boban, c’è la splendida piazza intitolata al Maresciallo Tito: e splendido è anche il teatro nazionale, circondato da giardini con bellissime composizioni floreali.

Il rientro a Belgrado avviene nella serata di domenica: dopo un buon piatto di pasta alle cozze, ci si è ritrovati a spalmare la Nutella su una colomba, regalata a Federico da un amico italiano. Ecco, questo è l’unico momento vagamente Pasquale del 2009: sia sull’ammiraglia a seguito dei ciclisti del Serbia Delta Tour (nel giorno in cui i cattolici ricordavano la Resurrezione) che nel weekend croato (nel giorno in cui toccava agli ortodossi celebrare la Pasqua), gli elementi Pasquali sono sostanzialmente mancati. Sarà per l’anno prossimo…

giovedì 16 aprile 2009

NUMERO DICIOTTO

LA PASQUA? QUANDO ARRIVA ARRIVA!

Dopo una notte brava con il solito Federico, il solito raggio di sole ti centra impietosamente l’occhio sicché - anche se sono le 9.30 - il sonno se n’è bello che andato. Colazione veloce a base di wafer e latte, doccia e lavaggio a mano dell’abbigliamento intimo settimanale. Presi i test, si punta trg Republike (piazza della Repubblica): se normalmente sotto il cavallo di fronte al museo Nazionale ci si aspetta per gli appuntamenti, a mezzogiorno e mezza è prevista la partenza della Delta Tour, una corsa ciclistica che vede impegnati le categorie juniori e i seniori: il percorso prevede 115km e passa per Pancevo (ridente centro industriale - circa 100.000 abitanti - ubicato a 15km da Belgrado noto soprattutto per una raffineria bombardata dalla Nato e per un film horror recentemente girato tra i capannoni), Kort, Smerderevo (splendida località adagiata sul Danubio tra morbide colline di alberi da frutto in fiore, nota soprattutto per il castello della Despota Stefana) e ancora Belgrado, prima dell’arrivo in salita di Rakovica.

Dall’auto della giuria la corsa si segue che e’ un piacere: la corsa “dal vivo” a due passi dai ciclisti e’ veramente spettacolare, tra cronometri, collegamenti radio, ammiraglie, ambulanze e moto della polizia (il mitico Ranko, fact totum della federazione ciclistica, non sta quieto un attimo!). E’ spettacolare e divertente, specie quando i ciclisti scalano un paio di colli poco prima del traguardo. La catena del “mai avrei pensato di…” si è arricchita di un altro incredibile anello: anche perché la macchina è guidata da Milenkovic Senior, leggenda vivente del ciclismo yugoslavo prima e serbo poi, padre di Milenkovic Junior, discreto corridore oggi organizzatore del giro di Serbia. Entrambi i Milenkovic parlano italiano ed entrambi si sono dimostrati gentili e disponibili.

Il ciclismo in Italia, quantomeno come immagine, è uno sport “popolare” – forse lo sport “popolare per eccellenza” -, è uno “sport per tutti”, uno sport in cui molto spesso i campioni provengono da famiglie modeste e normali: uno sport che porta la festa e il colore nei paesi sperduti grazie alla carovana del Giro. Il ciclismo in Serbia e’ paradossalmente uno sport “di elite”, uno sport per ricchi. Perché? Bastano poche parole a un costruttore di biciclette per spiegarmi il perché: “Questa bicicletta 5000 Euro, stipendio Serbia 300 Euro, già buono stipendio 300 Euro: pochi ciclisti”. A Belgrado e in Serbia la tradizione ciclistica è molto debole: pedalare per le strade della capitale è un azzardo, in più manca sia una pista che un impianto indoor. Come logica conseguenza, la maggior parte dei circa 150 ciclisti tesserati dalla federazione, non proviene da Belgrado (che conta circa metà della popolazione serba).

L’arrivo della corsa è a due passi dal parco Ciukaricki, dove il giorno prima ha avuto luogo un’altra gara ciclistica, questa volta di cadetti e cadetti “fascia B”, in un circuito interno al parco: sorrido quando mi ritrovo al tavolo dei dirigenti della federazione ciclistica, con di fronte a me sessanta ciclisti in erba che pranzano, chiacchierano e sorridono. Mai avrei pensato di passare una Pasqua così, anche perché infondo a Belgrado non è ancora Pasqua in quanto, d’accordo con il calendario ortodosso, la Pasqua arriva una settimana dopo quella Cattolica.

Per cui la celeberrima gita fuori porta di Pasquetta ha luogo nella facoltà di architettura con sei splendide ore di lezione, quattro con i principianti e due con gli avanzati. Proprio in una pausa della lezione degli avanzati, Goran si fa coraggio e mi chiede di tradurgli alcune parole: “saccente”, “spiffero”, “spezzare”, “polentoni”. Mi insospettisco, così gli chiedo dove abbia trovato queste parole. Sorride e mi dice:”sul tuo blog”. Incredulo, gli chiedo come sia riuscito a trovarlo. “Semplice, cercavo il tuo indirizzo email, ho inserito il tuo nome si Facebook ed era la tua frase, così l’ho aperto”. E come non considerare le lezioni in università “il meglio” della vita belgradese?

Sono veramente fiero dei miei studenti – non solo di Goran, che son sicuro che starà leggendo queste righe -, specialmente dei principianti che migliorano di lezione in lezione. Tutti sembrano seguire con molto interesse i miei sproloqui, anche se i corsi non sono né curriculari né obbligatori. Lo fanno soprattutto perché sognano di andare a perfezionarsi in Italia, iscrivendosi a un corso di studi o in uno scambio Basileus (è l’omologo dell’Erasmus per l’area Balcanica / Mediterranea), ma lo fanno anche perché gli piace la nostra lingua o più semplicemente perché il corso è gratuito.

E nell’attesa che arrivi un’altra Pasqua – domenica, questa volta quella ortodossa – mi congedo, invitando ancora una volta l’Abruzzo a tener duro e a non mollare.

giovedì 9 aprile 2009

NUMERO DICIASSETTE

FORZA ABRUZZO!!!

Lunedi, fine della lezione: Tamara, la mia assistente, mi si avvicina e mi chiede se ho saputo. No, non ho saputo. “Un grosso terremoto a Roma, con morti e feriti…” penso, mentre salgo le scale dirigendomi nel mio ufficio. Ricevo un sms dalla Slovenia, mentre la home del Corriere si sta caricando: ”Se non ho capito male, in Abruzzo c’e’ stato un terremoto”, alzo gli occhi sul monitor e vedo le foto, immediatamente comincio a leggere. Un senso di impotenza mi pervade: e’ triste non poter far niente. E’ triste sentirsi impotenti. Mentre nel mio Abruzzo reganono silenzio, sbigottimento, tristezza. Rispetto.

Era da tanto che non scrivevo niente, tutto avrei pensato, tranne che cominciare cosi. E al danno si aggiunge anche la beffa, leggendo il numero che contraddistingue questo post.

Avrei preferito parlare del weekend che ho trascorso in Italia, di quanto sia stato difficile preparare la valigia dopo soli tre giorni, di quanto sia stata dura salutare Fabrizio, Giuseppe e Paolo, di quanto mi abbia infastidito il ritardo di tre ore dovuto al volo Lufthansa, passato da Francoforte anziche’ da Monaco come previsto. Forse avrei potuto cominciare con le quattro siringhe di liquido che il mio dottore ha estratto dalla mia caviglia in virtu’ di una borsite trascurata: “Lo sport? Ma lasci perdere!” scherzava il dottore che mi ha fatto l’ecografia.

Forse avrei preferito parlare dello scorso weekend, il primo forse “ veramente serbo” da quando sono qui. E penso a domenica quando ci siamo ritrovati a bere un succo in uno splav, direttamente sul Danubio, con un splendido sole sulle nostre teste e l’immancabile cattedrale di San Sava sullo sfondo. Pomeriggio proseguito con una passeggiata lungo il fiume e una cena a base di “cevapi”, delle “salsiccette” a forma di dita originarie della Bosnia.

O forse sarebbe stato bello cominciare con lo splendido sole che sta facendo capolino sul celo belgradese ormai da qualche tempo: l’inverno sembra finito, sicche’ “il cambio di stagione” effettuato in Italia sembra essere – al momento – una scelta vincente e opportuna. Anche se l’inverno e’ finito, Belgrado continua a essere una delle poche citta’ al mondo dove gli unici soggetti a rispettare la distanza di sicurezza sono i pedoni.

Passeggiare sul ciglio del marciapiede rimane infatti sconsigliabile: se il pericolo doccia dovuto alle immense pozzanghere che si formano nelle strade sembra ormai svanito (e’veramente dura per gli automobilisti il non lavare i pedoni), tuttavia rimangono due categorie di nemici dei pedoni. Il primo e’ rappresentato dagli autobus: poiche’ passano sovente radenti al marciapiede, i loro specchietti sporgenti rischiano di tramutarsi in mazze da baseball per le teste dei poveri passanti., che si ritrovano a fare i conti anche con il “parcheggiatore selvaggio”. Esclusi i muri verticali – benche’ i belgradesi se le inventino tutte, ancora non riescono a parcheggiare in verticale -, a Belgrado quando bisogna parcheggiare vale tutto: qualsiasi pertugio e’ buono per lasciare il veicolo. Per cui i marciapiedi (specie quelli piu' ampi) divengono la logica estensione della strada, con automobilisti che – uscendo dal parcheggio e volendo rientrare nel flusso delle auto, non esitano a “fare i fari” ai pedoni che pretendono di passeggiare sul marciapiede.

Avrei potuto cominciare anche con la passeggiata che ho fatto ieri a Kalemegdan, la fortezza medievale che domina l’intersezione tra Danubio e Sava. Se il parco e’ gremito di bambini e famiglie, la “passeggiata” con vista sui fiumi e’ prevalentemente occupata da adolescenti: quelli accoppiati limonano, quelli non accoppiati guardano quelli che passeggiano, piu’ o meno tutti mangiano il gelato.

Dopo qualche "vasca", mi avvicino ai tavoli e alle panchine su cui i vecchi giocano a scacchi: l’osservatore italiano a Belgrado infatti non puo’ non sorprendersi di quanti crocchi di uomini si formino per le strade attorno alle scacchiere. Alla terza volta che mi avvicino, quello piu’ bravo mi rivolge la parola, ma non capisco. Mi dice che per giocare a scacchi la nazionalita’ non conta: quando capisce che sono italiano, ordina a un altro di alzarsi e di farmi posto alla sua destra. Gli altri sembrano rispettarlo: il suo avversario non e’ di livello sicche’ nel giro di un minuto vince e mi invita a giocare. Provo a rifiutare, ma non riesco sicche’ la partita comincia.

Uno del gruppo continua a cantarmi canzoni di San Remo, finche’ il mio avversario lo zittisce, perche’ la partita e’ in corso: dopo che mi ha suggerito due mosse (correggendo due miei grossolani errori), mi ritrovo a dargli scacco-matto. A quel punto mi chiede la rivincita con i neri: anche qui mi corregge due volte, finche’ non si ritrova con un re e due pedoni contro un re e quattro pedoni: si sta facendo buio, la partita e’ pari e patta, con complimenti e strette di mano. “Io gioco sempre a questo tavolo, torna a trovarmi, professore!” aggiunge, scherzando sulla mia professione in Serbia.

Effettivamente un po’ tutti rimangono perplessi di fronte alla mia nuova professione. E io non riesco a dar torto a questa perplessita’: un nero e’ alla casa bianca, io sono professore di italiano. C’e’ aria di crisi, questo e’ quanto. Ed e’ legittimo piangere quando c’e’ crisi. E’ legittimo piangere quando si ha paura. E’ legittimo piangere di fronte alle catastrofi, di fronte alla morte, alla desolazione e al dolore. Ma di fronte alla paura bisogna reagire con coraggio e con grinta: ed e’ questo che spero che le genti abruzzesi riescano a fare. Anche se si trovano in un paese che crede a Vanna Marchi e denuncia per falso allarme i sismologi che prevedono un terremoto (ok, capisco che non si possa evacuare una regione ampia per una previsione infondo non cosi precisa, pero’ diamine la denuncia sembra eccessiva!).

Quello che vorrei per il mio Abruzzo e’ che trovi la forza di reagire, che riesca a rimboccarsi le maniche e che presto riesca a venir fuori da questa immane tragedia. Nessun fenomeno puo’ impedire al sole di risorgere. Domani e’ un altro giorno. FORZA ABRUZZO!!!

lunedì 16 marzo 2009

NUMERO SEDICI

DALLE MIMOSE AGLI 883, PASSANDO PER IL MARACANA

Mimosa fa rima con otto marzo festa della donna e con regalo alla maestra, alla più bella della classe, alla mamma, alle sorellina oppure eventuali fidanzate, amanti, mogli, colleghe, suocere e quant’altro. Le nostre città infatti, a partire dal 7 si tingono di giallo, con un venditore in ogni angolo. Per cui il viandante italico rimane sorpreso quando, sin da metà febbraio, le strade di Belgrado si tingono di giallo, con zingari e fiorai che cominciano a vendere il simbolo della festa della donna con sospettoso anticipo.

E il solito viandante italico, in compagnia di un amico viandante italico, si ritrovano in macchina alle 8 di domenica sera, a puntare gli splav. “Ma oggi è la festa della donna anche qua?”: gli si illuminano gli occhi “Certo!”. Carichi come batterie Duracell, i nostri eroi si ritrovano a passeggiare lungo il Danubio, cercando di selezionare lo splav migliore, anche se in realtà sembrano un po’ tutti desolatamente vuoti. Nessun venditore di mimose, nessuna donna mimosa-munita. E nemmeno indicazioni di feste, spogliarelli e quant’altro. Ci si ritrova così dentro il Sidro, baretto “alla buona”, con prezzi assolutamente popolari (un espresso a 60 dinari, mezzo litro di birra Helen a 90: con il cambio a 93 significa rispettivamente 64 e 97 centesimi di Euro): “è il pre-serata, poi ce ne andiamo o su un altro splav o in un club del centro…”. Ultime parole famose: a parte un po’ di movimento al Tramvail, un baretto con musica dal vivo di buona qualità, la città è decisamente morta, nonostante sia domenica e nonostante sia l’otto marzo. E nonostante i due eroi abbiano girato almeno dieci locali.

Calava così il sipario su un deludente weekend, piovoso e grigio a partire da venerdì sera: Murphy docet. Perché da mercoledì a venerdì, e anche per buona parte di lunedì, su Belgrado splendeva un tiepido sole, quasi primaverile. E’ stato un weekend negativo un po’ per tutti, a quanto pare: evinco ciò dalla chiacchierata con Daria, ragazza udinese appena arrivata nello studentato (ma con una precedente esperienza belgradese, lo scorso anno), che ha lavorato sulla tesi, e con Ben, il mio nuovo compagno di stanza, che ha passato sabato e domenica sera a guardar film assieme a un austriaco. Il paradosso è che io e Daria parliamo in inglese - alla faccia dei luoghi comuni sugli Italians – con Ben che risponde a Daria in serbo, nonostante Ben sia inglese 100% (Ben è uno dei pochi inglesi plurilingui). In compenso i banchi dei fiorai sono ancora brillantemente gialli.

Scrivo Italians e guardo il piatto che mi ha regalato Beppe Severgnini, in quanto organizzatore della MCII pizza-Italians, organizzata venerdì 13 Marzo a Belgrado. Personale dell’Ambasciata e dell’Istituto italiano di cultura (con tanto di eventuali mogli/madri), giornalisti e fidanzati, rappresentanti delle delegazioni regionali/organizzazioni internazionali, manager di banche/assicurazioni/FIAT, imprenditori, professori e gli immancabili “stagisti”: forse mancano solo le ONG, per il resto il ritratto degli Italians di Belgrado sembra essere decisamente fedele. La pizza è buona, l’atmosfera elegante, ma anche rilassata e informale e “cozy”: un discreto lavoro di preparazione nelle scorse settimane con il management del ristorante, il cui servizio è inappuntabile, e l’attenta regia di Beppe, abile a curare gli ultimissimi dettagli, rendono piacevole la serata e tutti – all’uscita – hanno espressioni soddisfatte e sorridenti. Nemmeno il conto - oltre 56.000 dinari, da dividere in 38 quote – crea alcun problema.

La pizza è il momento clou del weekend belgradese di Severgnini, ultima tappa di una settimana trascorsa tra Bucarest e Sofia: ho avuto modo di parlare molto con lui, tirando fuori le difficoltà si chi, nato nel 1982 da genitori abruzzesi - terza media lui e quinta elementare lei – trapiantati a Milano in virtù del “posto fisso” nelle ferrovie, cerca di trovare un posto al sole sentendosi costretto ad andar fuori da un’Italia, più che mai ombrosa e cupa.

Se la lettrice liquidava sprezzante “Quando cominci a lavorare?” il racconto dettagliato delle pregresse esperienze di vita (stages, volontariato e studio) in sei paesi negli ultimi tre anni, Beppe reagiva con naturale disinvoltura: “hai tutta la mia ammirazione, hai fatto una serie di scelte giuste e coraggiose che prima o poi, quando meno te lo aspetti, ti saranno ripagate. Il problema è che voi siete una generazione sfigata: come se non bastasse, è arrivata anche la crisi. Pure tu però ti vai a laureare in scienze della comunicazione…”.

Se dal vivo sembra un ometto silenzioso, distratto e schivo, quando Beppe trova una platea da intrattenere, si trasforma completamente, rapendo tutti con le sue storie, i suoi aneddoti e intelligenti battute. E’ andata così nell’incontro alla mediateca dell’Istituto (giovedì, giorno in cui Vidic era su tutte le prime pagine dei giornali serbi), è andata così nella lezione in università, in cui tratteggiava un ritratto, a mezza via tra il serio e il faceto, della nostra cara Italia.

Ed è stato divertente anche andare, assieme a Maya – simpaticissima giornalista locale – a vedere l’anteprima della mostra con la collezione dei regali ricevuti da Tito (prossima all’apertura) e soprattutto è stato divertente vedere l’entusiasmo di Beppe quando l’ho portato nel mitico Maracana, lo stadio della Stella Rossa, nel quale Beppe ha anche comprato qualche gadget, in omaggio al passato di Dejan Stankovic, padrone del ristorante che ha ospitato la nostra pizzata.

Ridendo e scherzando, se n'e' andato un altro weekend...va via col telegiornale il weekend...cosi poi aspetteremo il weekend...convinti che sara' il migliore....dei weekend!

lunedì 9 marzo 2009

NUMERO QUINDICI

IO PROFESSORE? POVERA ITALIA...E POVERA SERBIA!

L’epiteto “professore” accanto al tuo nome suona veramente strano e anche il sentirselo ripetere più e più volte non aiuta. Di fronte al sorriso smarrito, la Direttrice sorride bonaria: “capita a tutti!”, “beh…insomma” penso, assumendo il mio punto di vista di ventisettenne pievese. L’auditorium della facoltà di architettura conferisce solennità all’evento, anche se la platea è sparuta: alla presentazione dei corsi di italiano ci sono infatti ventuno studenti. “Soliti chiacchieroni serbi” dico tra me e me, ripensando ai criteri di selezione, numeri chiusi e tre gruppi totali spalmati su due livelli, di cui si era parlato con il supermegadirettoregalattico della facoltà, più altri responsabili vari, qualche giorno prima.

La procedura di iscrizione ai corsi alla facoltà di architettura è altamente tecnologica: una teca con il nome dell’esame viene piazzata in un corridoio e tenuta li per due o tre giorni cosicché gli studenti interessati possano compilare un modulo, ovviamente a mano, e imbucarlo. Alla chiusura delle iscrizioni, nella teca del corso di italiano, ne abbiamo trovate 250, decisamente al di sopra della più rosea aspettativa: “conoscono i loro polli” pensi, rimangiandoti la miscredenza post-presentazione. Zoran, professore e responsabile delle relazioni internazionali della facoltà è entusiasta e incredulo: con il sorriso di un bambino chiama la Direttrice dandole gioioso la notizia. La telefonata si chiude con un “sarà un successo!”.

Il fatto che siamo già abbondantemente in Marzo e il semestre sia cominciato dal 16 febbraio non influenza minimamente il modo di fare serbo: non rimandare a domani ciò che puoi far dopodomani, sicché il “take it easy” diviene anche la mia filosofia, durante l’intensa “tre giorni” di lavoro per scremare le iscrizioni fino al numero massimo di 60 studenti (cifra forse irrisoria rispetto alle iscrizioni ma molto maggiore rispetto ai 45 posto prospettati all’inizio), risultato di un tour de force volto a cominciare le lezioni fin da lunedì. Ovviamente non se ne parla: posso solo immaginare quanto mi toccherà faticare per rincorrere il preside, farmi accettare l’offerta e risolvere le ultime questioni relative a prenotazione dell’aula e partenza delle lezioni.

La burocrazia, il verticismo, la non-voglia di lavorare e la lentezza del sistema italiano sono bazzecole. Qua tutti sono tranquilli e rilassati: d’altra parte dopo Tito, la crisi economica, il dopo-Tito, la guerra e le sanzioni, non hanno paura più di niente e, nel loro fatalismo, sanno che se la caveranno, per cui adottano la filosofia del “minimo sforzo”. - Una volta sono entrato in un negozio – racconta Giovanni - cercando una vernice. Mentre curiosavo tra gli scaffali la commessa alza lo sguardo dal giornale e mi chiede: “Serve qualcosa?”. E io: ”No, perché?”. E lei mi fa: “Mi scusi”, poi abbassa la testa ricominciando a leggere. “Ma secondo te che ci sono venuto a fare nel negozio? Il turista?”. E lei: “E che ne so io?”. Mentre il Milan usciva ingloriosamente dalla UEFA, Luigi rincarava la dose: “- Il toner!!! Quando si esaurisce il toner tu dove vai a comprarlo? Nel negozio in cui hai comprato la stampante, giusto? Bene, io ci sono andato e c’era un ragazzo mezzo addormentato. “Che ce l’avete il toner per la stampante?” gli dico il modello. Lui mi guarda e mi fa “no”. “Ma come no? L’ho comprata qui…E lui “Non ce l’abbiamo”. “Non puoi ordinarlo?”. “No”. “Sai dove posso trovarlo? Qua vicino, in zona…”.”No”. “Ma com’è possibile che non ce l’avete? Vendete ancora materiale per l’ufficio!”. “Non abbiamo più quella marca”. “E quella cos’è?”.”Ah, non lo sapevo”. “Chiama qualcuno, fai qualcosa”. Fa un paio di telefonate, parla in serbo e non capisco. Dopo un po’ mi dice “Niente da fare”. “Ma come? Non c’è il tuo capo qui?”. “Passa a mezzogiorno e chiedi di Dejan”. A mezzogiorno incontro sto Dejan e gli chiedo “Che ce l’avete il toner? Ho comprato una stampante qui un po’ di tempo fa, ora avrei bisogno del toner”. “Che modello?” Gli dico il modello, fa una telefonata, lo ordina e mi dice di ripassare in due giorni. A sta gente qua non gli va di fare un cazzo”. Impressione che mi confermava l’operatore Caritas in Bosnia Hercegovina e Serbia, che – sabato assieme a un gruppetto di italiani - mi raccontava di una cena abbondante con una ventina di persone:”Gli abbiamo ordinato di tutto, poiché però il prebranac (sorta di fagiolata, ndr) era piaciuta, ho chiesto al cameriere di portarcene ancora. “No, dopo arrivano la carne, l’insalata, il dolce…”. “Non mi interessa, siamo in venti, ci è piaciuta, ne vogliamo un altro giro, te la paghiamo”. Niente da fare: non aveva voglia di prepararla e di servire un ulteriore giro”. “Qua non hanno il senso della “responsabilità”, a tutti i livelli “scaricano i problemi” sul superiore”. Che però normalmente è impossibile da reperire, in virtù del rigido verticismo gerarchico sul quale si struttura la società serba, che tira a campare imperniata sul principio del minimo mezzo.

Chi non fa niente è efficace, perché raggiunge l’obiettivo del non far niente, ed efficiente, in quanto non spreca alcuna risorsa per centrare l’obiettivo: dopo una sorta di evoluzione darwiniana sociale, la società serba sembra imperniata su questo concetto. Per cui i problemi non si affrontano ma si rimandano, tanto infondo ci sarà tempo per risolvere il problema. Mi diceva Zoran che nei condomini, quando si rovina il tetto (come anche quando si rompe l’ascensore), le uniche persone interessate sono quelle che abitano ai piani alti e nessuno è disposto a collaborare alle spese. Per cui se l’inquilino dell’ultimo piano ha i soldi, si carica le spese del rifacimento tetto, in cambio della costruzione di un piano aggiuntivo, che raddoppia il valore del suo appartamento: i coinquilini accettano, infondo che gliene importa a loro? Se invece il povero inquilino non ha i soldi necessari, vende, normalmente ai palazzinari stranieri, che a quel punto comprano tutti gli appartamenti dell’ultimo piano, si accollano le spese del tetto e aggiungono uno o due ulteriori piani, eventualmente riparando anche l’ascensore e costruendo anche un terrazzo.

Un’email di un ammiratore di lungo periodo mi chiedeva perché su DanimarcAntonio (www.danimarcantonio.blogspot.com) e Cronache Lituane (www.cronachelituane.blogspot.com), firmavo i post mentre qui in Serbia non lo faccio più: e allora riecco la firma!

USS – Un Sacco Serbo

mercoledì 25 febbraio 2009

NUMERO QUATTORDICI

GLI STRANIERI SONO MINACCE O RISORSE?

Treno fermo in stazione, sei seduto assieme alla tua donna, da soli in uno scompartimento. A un tratto entra lei, straniera, benvestita. “Can I take a seat here?” chiede, “Sure” le rispondi sorridendo. Chiacchierata tranquilla, finché lei, la tua lei, non comincia a rifilarle una serie di occhiatacce e di stilettate, che zittiscono la straniera, che si ritira nel suo angolino. Situazione chiara, no?

Bene, perché' ora arriva il difficile. Tu, ragazzotto italiano, vesti i panni della benvestita e la straniera benvestita diventa la fidanzata di un essere croato, vestito con scarpe rosse e bianche da basket, tuta in paille larga e svasata, felpa rossa Adidas con tanto di cappuccio e striscie bianche. Barba sfatta, capelli trascurati.

Considerando gli standard balcanici, il simpatico croato è vestito anche bene in quanto la tuta da queste parti è un capo adatto alle più svariate circostanze: fatta eccezione per il matrimonio, ma solo se si è lo sposo o il testimone, la tuta va bene, oltre che per fare sport, anche per andare in università, per giocare a palle di neve, per passeggiare per le vie del centro, per uscire la sera e, perche' no, anche per un appuntamento galante. Ovviamente la tuta non e' necessariamente di marca e non necessariamente acetata.

Fino ai trent’anni la camicia non sanno nemmeno cosa sia...la cravatta? "Roba da ricchi”.

Che ci fai a Belgrado, ti piace la città, e voi dove state andando? La conversazione è banale, l’orco apparentemente legge un giornale sportivo salvo alzare gli occhi e, di traverso, inquadrarti ogni volta stai per dire qualcosa di discutibile dei paesi o delle genti jugoslave, squadrandoti con sufficienza quando critichi la logistica belgradese (“di fronte all’Istututo c’è un semaforo lentissimo: normalmente attraverso la strada quattro volte al giorno: anche calcolando di perdere cinque minuti di media, in un mese significa due ore, in un anno un giorno”) e insegnandoti con saccenza che “sai, una volta eravamo un paese”, quando osservi che al pari della sua donna, nata in Bosnia ma cresciuta in Croazia, che un po’ tutte le genti balcaniche sono mescolate. Il treno parte, la conversazione si arresta.

Se con lei, di tanto in tanto, c’è qualche scambio di convenevoli (“scusami, potrei passare? Grazie” o “rimani qua? Possiamo lasciare il laptop?"), mentre lui baccaglia in croato che non è il caso di parlare inglese con questo italiano qua: lei ride, ogni tanto lo bacia per zittirlo. Dopo un po’, mentre io ero in bagno, lui l’ha fatta spostare sedendola di fronte a lui accanto al finestrino: con una gamba di qua e una di la, crea un recinto attorno alla sua proprietà privata, dai chiari capelli e occhi azzurrissimi.

L’apoteosi arriva a pochi chilometri da Zagabria: grazie al wireless, il simpatico croato si connette a internet, tira su il volume delle casse e mostra a lei, in modo che anche tu possa sbirciare, la curva della Dinamo – probabilmente non la più cosmopolita della regione – che canta canzoni in cui una parola su due e' "Hrvatska". Zagabria è però più vicina del previsto, sicché lui ripone il pc in fretta mentre lei, avvolta nel suo cappotto verde, sorridendo augura buona fortuna e buon proseguimento di viaggio, uscendo dallo scompartimento. Lui tira giù il valigione con uno scatto, rovesciando le lattine di Coca Cola che si è scolato assieme alla sua lei: ovviamente non le raccoglie, esce ovviamente senza salutare. E’ un vero duro, lui.

Una volta scesi, lei si ferma per accendere una sigaretta, involontariamente proprio sotto il tuo finestrino. Non puoi lasciarti scappare l'occasione di cercare con lo sguardo gli occhi di lui, prima di fissare intensamente lei. Reazione: la abbraccia e la porta via. Esce più fumo dalla testa di lui che dalla sigaretta di lei.

Capacità di abbinare un jeans, un maglione e una camicia, propensione al dialogo e al sorriso, intraprendenza nei rapporti interpersonali, voglia di stare in compagnia, di divertirsi e di far festa. Il tutto condito da una sana dose di intelligenza, malizia e furbizia.

Temere le straniere, temere gli stranieri, ammirare le straniere, ammirare gli stranieri...Mentre rientro nel territorio dell’Unione via Slovenia, realizzo il perché noi italiani (specie gli ometti) siamo cosi intensamente amati e odiati allo stesso tempo: che sia, in entrambi i casi, "manifesta superiorità"?

martedì 17 febbraio 2009

NUMERO TREDICI

IL BUONO, IL BRUTTO E IL CATTIVO. E LO SPIFFERO

Telefonata. - Mà, Sai che domani sera vado al concerto di Ennio Morricone? – Perché è ancora vivo? – Speriamo di si – Perché? – Perché se no chi suona domani? – Dai, pensavo fosse morto…

Pensandoci bene, un concerto di Morricone sta a un ragazzo di Pieve come il caviale sta a un bambino somalo: d’altra Pieve Emanuele è un paese dove già se sai la tabellina del sette dimostri un certo livello culturale, figurarsi Morricone. Anche se poi tutti, almeno una volta nella vita, abbiamo canticchiato o fischiettato “tanaaaanananananananananananaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaatanananananananananananananaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaa”…E tutti lo riconosciamo al volo. Anche a Pieve.

La città era tappezzata di manifesti pubblicitari, sicché i circa ottomila (forse anche di più) biglietti venduti (con prezzi medi attorno ai 30 Euro, non proprio a buon mercato) erano forse prevedibili e rappresentano una cospicuo bottino per gli organizzatori. Le tribune sono gremite, quello che negli stadi è il “prato” ovviamente anche: pochi sparuti gruppi affollano il secondo (ed ultimo) anello, probabilmente la zona più economica. Era forse prevedibile anche questo, considerando che il pubblico che va a sentire Morricone è generalmente colto, benestante e appassionato di musica, per cui interessato a godersi la performance dalla migliore postazione possibile senza lesinare qualche qualche dinaro per ritrovarsi in piccionaia. Tra il primo e il secondo anello c’è una serie di box, delle specie di palchetti, sui quali prende posto il gotha della “Belgrado bene”: c’è chi fuma, chi beve e chi guarda la televisione. Televisione, ma sei sicuro? Forse ci sarà un monitor per godersi il concerto al meglio, con inquadrature che catturano i dettagli… No, ti ho detto televisione e intendevo dire televisione, con tanto di cartoni animati e partite di calcio.

Gli applausi partono più o meno a casaccio, specie all’inizio, quando il chitarrista solista che funge da rompighiaccio ne riceve uno a ogni “girata di pagina”. E anche i tecnici, saliti per preparare gli strumenti per l’orchestra – dopo l’apertura – ne rimediano uno, divenuto discretamente fragoroso una volta capito l’errore.

Circa centocinquanta coristi – serbi, uomini e donne – fanno da cornice superiore ai circa cento musicisti giunti dall’Italia, inclusa la brava cantante solista. Acustica perfetta e musicisti di prim’ordine: anche l’orecchio poco allenato si lascia trasportare dalla musica, anche perché la melodia spesso suona familiare. Chiudendo gli occhi si vedono cavalli, cow boy e Clint Eastwood che entra in un saloon dopo una sparatoria: quando parte il “tanaaaanananananananananananaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaatanananananananananananananaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaa” è pura pelle d’oca, con i ricordi dei soldatini dell’infanzia, che tornano prepotentemente alla ribalta, con in sottofondo il deserto, il sole caldo in un infuocato mezzogiorno, le pistole col colpo in canna, gli stivali con tanto di speroni.

Se per i danesi la peggior punizione è obbligarli a parlare (ancora ricordo i saggi di fine anno delle scuole di danza con un surreale e probabilmente fuori luogo, silenzio che rimbombava nella palestra tra un’esibizione e l’altra), la peggior punizione per i serbi è farli star zitti, anche se sta suonando uno che ha un Oscar sul comodino: immancabile la tipica “pausa caffè” a metà concerto e il tipico “spiffero serbo”, che soffia lungo le gradinate. Che cos’è lo spiffero serbo? Chi ha vissuto in Serbia sa esattamente di cosa sto parlando.

Appena arrivato a Belgrado avevo “la testa” del letto all’angolo tra due finestre: quando la bella stagione cominciava a cedere il passo all’autunno, la bora cominciava a soffiare sulla mia testolina, sicché ho spostato il letto più “a sud”. Pensavo che lo “spiffero” fosse tipico del Rifat Burgevic (lo studentato nel quale vivo), in realtà Federico mi diceva che, appena arrivato nella nuova casa, aveva anche lui il problema dello spiffero, sicché ha chiamato dei tecnici per risolverlo. Bene, due energumeni dall’odore interessante gli sono entrati in casa puntando direttamente il divano: l’infelice idea di offrire un caffè prolungava la seduta di oltre due ore. Dopo dodici ore di lavoro, la finestra si apriva più da destra verso sinistra ma da sinistra verso destra. Federico, tutto contento, andava a dormire, svegliandosi l’indomani con la felice scoperta che lo spiffero, seguendo la teoria darwiniana, si è adattato per cui, al posto di soffiare da sinistra a destra, soffia da destra verso sinistra. La sua donna invece ha installato le doppie finestre per risolvere il problema: ogni tanto però lo spiffero lo sente ancora.

Mai sottovalutare le potenzialità dello spiffero serbo: questa settimana è addirittura riuscito a spostare a lunedì la festa nazionale (curiosamente lo stesso giorno di quella lituana!) in quanto il quindici era domenica. E forse sarà stato proprio lo spiffero serbo a deviare la traiettoria del pallone sul braccio di Adriano, consentendo al pifferaio Rosetti, forse il primo essere umano ipnotizzato da un serpente, di convalidare un gol che manco la Juve dei tempi d’oro: l’ovazione dello sport café saluta il raddoppio di Stankovic, “ma anche” (come direbbe Crozza) e il gol di Pato, sebbene con meno intensità. E chissà che bandiera batte lo spiffero che sposta Pippo in fuorigioco, precisamente sanzionato dall’impeccabile e bravissimo pifferaio Rosetti: il gol, pur essendo irregolare, rimane più bello di quello di Adriano. E se uno stupido spiffero non avesse spostato sul piedone di Julio Cesar il diagonale di Pippo allo scadere…

Maledetti spifferi.

venerdì 13 febbraio 2009

NUMERO DODICI

SPACCATO DI VITA BELGRADESE

Tru tru tru…plin plin plin…tru tru tru…”Ok, ti ho sentito, sono pronto!”…Sono grossomodo le 9.10 / 9.15 quando suona la sveglia del cellulare: la giornata media del tipico borsista italiano a Belgrado comincia. Apro gli occhi (a volte nella speranza di non svegliarmi dove mi sveglio), mi alzo, vado in bagno: non ho molto tempo, sicché inforco un jeans e un maglione a caso e mi fiondo giù, tesserina e “jeton” alla mano, per la colazione (c’è tempo fino alle 9.30).

Un piano di scale, venti metri di passeggiata in cortile (l’aria fresca aiuta nello svegliarsi) e dritto in mensa, nella speranza che ci sia la mitica Eurocrem: in alternativa miele o marmellata. Se proprio il piatto piange, si va “alla serba”, per cui uovo fritto oppure homelette oppure wurstel. Se anche il piano B fallisce, giù di affettato e formaggio. Sostanzialmente con la mia “cartiza” (tessera dello studente, che tra le altre cose da diritto a una serie di sconti) si può prendere una sola delle pietanze finora elencate, cui si possono accompagnare due tazze (te o latte) oppure una tazza e uno yogurt, più pane a volontà. Generalmente sorrido alle inservienti, sbilanciandomi in improbabili conversazioni che il più delle volte si fermano al “dobro jutro” (buon mattino). Alla fine del corridoio, c’è un’inserviente che prende la tessera, “scala una colazione”, riceve il “jeton”, rendendo in cambio le posate e la tessera stessa. Tempo di sedersi, mangiare e riconsegnare il tutto in cucina, ricevendo in cambio della cortesia, il “jeton” di cui sopra (ottenuto in cambio di una cauzione di 200 dinari, pagata alla “blagaina”, la cassa nella quale lavora Zorana, ribattezzata dal mio ex compagno di stanza Jan “the cow” per la sua disponibilità e apertura mentale).

E’ tempo di tornare in stanza, fare una doccia, e conversare con la donna delle pulizie: – Dobro jutro, kako si? – Dobro, hvala. Ti? – Dobro!” (non traduco, penso che ce la puoi fare anche da solo). C’è un solo ragazzo della security che mastica un po’ di inglese: con lui uno sfottà non manca mai, nemmeno quando non si tiene in piedi dal sonno (cosa che gli capita spesso, come a tutti i serbi).

Collezionati armi a bagagli, nel giro di mezz’ora (dopo un’attesa variabile) il filobus numero 40 mi porta dritto all’Istituto Italiano di cultura: entro in mediateca, saluta Ivano, Marina e Branco e mi siedo al computer. Email, Facebook e Corriere, giusto per capire che aria tira in giro, poi le varie newsletters di informazione sui Balcani, infine “varie ed eventuali” fino al pranzo.

Normalmente torno a casa (alla mensa di cui sopra), oppure raggiungo una delle altre mense universitarie: una zuppa, un piatto caldo, una piatto di verdure (freddo), un dolce (alternativa un frutto o un succo) e pane a volontà: la procedura è la stessa del mattino, con la differenza che la fila per accedere al cibo varia dagli zero ai quaranta minuti. Riconsegnati i piatti e riottenuto il gettone, si torna in Istituto, al solito computer in mediateca: se c’è bisogno do una mano in Istituto, se no si naviga fino al tardo pomeriggio, quando vado verso una palestra per sottoporre il test (da bravo un ricercatore) ai pallavolisti belgradesi, categorie juniori e juniorke.

Prima o dopo della palestra (dipende dall’orario) c’è la cena, che ricalca il pranzo, ma senza la zuppa. Una volta a casa, normalmente “carico” i risultati dei test, faccio “due cose” al pc (che ne so, il blog?), magari lavo due panni mano e lentamente mi preparo ad andare a dormire.

Sostanzialmente tre volte al mese ricarico la tessera con dieci colazioni, dieci pranzi e dieci cene (mi costano 1090 dinari, corrispondenti a circa 11 Euro), per ricaricare la tessera si va dal “cow” di cui sopra. La qualità del cibo, benché vari in base al giorno e al ristorante, non è certamente eccelsa, tuttavia è mediamente ragionevole: generalmente mangio sempre tutto, rendendomi conto – certe volte – di mangiare anche il cibo che i serbi lasciano schizzinosamente nel piatto (“la guerra è finita” penso tragicomicamente…).

Hanno un grosso pregio gli studenti serbi: mangiano in fretta. Sicché anche quando le file sono chilometriche si trova sempre agilmente un posto a sedere, anche nelle mense affollate e piccole. Hanno però un difetto: quando le file sono lunghe, lo studente “furbo” si toglie il cappotto “occupando” un posto. Sicché quando hai finalmente hai finalmente il vassoio pieno – magari dopo mezz’ora di coda – tra le mani, sei li che giri per la mensa come un’idiota, tra sedie occupate dai cappotti di chi è appena arrivato in sala e che mangerà tra mezz’ora, se tutto va bene, perché la fila nel frattempo si è allungata a dismisura. Normalmente, da buon italiano, “me ne sbatto” e mi siedo, pronto a sorridere, nel caso, scusandosi giocando la carta dello “straniero”.

Le alternative alla routine ci sono, e spaziano dalle lezioni (una volta a settimana, alla facoltà di scienze politiche: seguo un corso in public administration and policy, tenuto da un docente americano) fino alle incursioni di Federico, il mio amico italiano con il quale spesso mi concedo delle pause a base di caffè e chiacchiere allo stato puro: checché se ne dica, gli italiani hanno bisogno di altri italiani, in certi momenti, per parlare “in italiano” e “all’italiana”. Normalmente Federico è il mio compagno di battaglie durante i weekend quando, con alterne fortune, si cerca svago nella movida belgradese. Lo scorso weekend ho anche provato a inserire nuovamente nella mia routine gli allenamenti: sono andato a correre per due giorni di fila in una pista di fronte allo studentato nel quale vivo. Due sessioni da un’ora cadauna che mi han fatto camminare “come un egiziano” fino a mercoledì.

Oggi è venerdì, Federico è ancora in Italia sicché le prospettive per il weekend non sembrano certo esaltanti, nonostante il derby di domenica: i giorni liberi saranno addirittura tre in quanto la festa nazionale viene in qualche modo spostata a lunedì in quanto cadeva di domenica. Per giunta nevica, per cui niente allenamenti. E l’Istituto Italiano di Cultura è chiuso, per cui niente internet. A casa non ho nemmeno la televisione. Mi sento a mezza via tra il pensionato e lo scandinavo: qualcosa mi dice che domattina sentirò la mancanza del tru tru tru…

lunedì 9 febbraio 2009

NUMERO UNDICI

VENERDI’ TOSCANO: AMSTERDAM, DOSTOJEVSKI E IL VIBRATORE

Gabriele e' un simpatico livornese dall’approccio cosmopolita e dall’aria bonaria: è il presidente di Italiamo, una scuola di italiano per stranieri con una trentina di sedi in Italia e all’estero. Si trova di passaggio a Belgrado, destinazione Ucraina e Romania: il suo intento è quello di permettere agli studenti belgradesi di studiare nelle sue scuole offrendo tariffe vantaggiose e alcune borse di studio. E’ venerdì pomeriggio e su Belgrado splende il sole: in Istituto non c’è molto da fare, sicché ci si ritrova a bere un caffè aspettando la lettrice, con la quale lui e' riuscito a rimediare un appuntamento per presentare la sua attivita'. Una lunga piacevole chiacchierata si conclude con lo scambio dei numeri: “chiamami stasera che magari si esce!”. Alla fine si è usciti, destinazione il celeberrimo splav Amsterdam.

Splav. Ai più questa parola non suggerisce niente, e i più ovviamente hanno ragione, tuttavia questa è una parola capace di mettere i brividi. Specialmente a chi gli splav li ha provati. Perché? Che cazzo sono gli splav? A parte che ci si potrebbe esprimere anche con un po’ di garbo, comunque gli splav sono delle chiatte sul Danubio che fungono da bar e ristoranti in orario diurno per trasformarsi in sale da ballo in orario notturno. Fuori dalla finestra si vede la città riflessa sul fiume, all’interno invece c’è musica dal vivo e anche l’ambientazione pare discretamente curata. Si beve, si danza, si canta, si ride e si scherza, il tutto a prezzi ragionevoli. Ovunque ci sono scollature da capogiro e tettone enormi: vere o false? Ma chissenefrega!

Sembrerebbe un “mondo perfetto” specialmente per noi italiani, che difficilmente riusciamo a mettere in piedi un ragionamento rudimentale anche solo immaginando le forme di Cristina Del Basso. Il fatto è che se non sei né jugoslavo né sordo, la possibilità di godersi una piacevole serata si riduce, in compenso il rischio di frantumarsi i coglioni (chiedo scusa per la scurrilità) è veramente alto. Perché? Perché ovviamente la musica dal vivo spazia dal rock serbo-yugoslavo alla musica leggera serba-yugoslava, dalla musica dance serba-yugoslava fino alle canzonette della tradizione popolare serba-yugoslava, dallo ska serbo-yugoslavo fino al pop serbo-yugoslavo. La risultante è che tutte queste canzoni serbe-yugoslave diventano ben presto tutte dannatamente uguali: la gente, in compenso, le conosce tutte a memoria, se la canta, se la balla, se la ride, si diverte e se le gode. Dopo mezz’ora, non si hanno occhi che per il Culo marmoreo della cubista, ovviamente sproporzionatamente procace sul davanzale.

Giusto per capirci: l’omologo italico degli splav potrebbe idealmente collocarsi a Roma (capitale, come Belgrafo) sul Tevere (il fiume della capitale). Il vantaggio sarebbe quello di avere sullo sfondo Castel Sant’Angelo anziché San Sava (con tutto rispetto, vuoi mettere?). Lo svantaggio? Il doversi sorbire un’orchestra dal vivo che spara uno dopo l’altro “i grandi classici della musica italiana”, con canzoni presi da diverse epoche, diverse regioni e diversi generi, un po’ come accade nei matrimoni ma con l’aggiunta di qualcosa di relativamente più moderno e qualcosa di relativamente più antico. Ricchi e Poveri, Peppino di Capri, i cori degli Alpini, Ligabue, Celentano, Gigi d’Agostino, Raoul Casadei, Nino D’Angelo, i Tazenda, Bruno Lauzi, ‘Nduccio, Negramaro, Raffaella Carrà, Tiziano Ferro, Nilla Pizzi: un po' come la colonna sonora di “ballando con le stelle” ma solo con pezzi italiani. Ecco: il massimo del divertimento serbo sta nelle nostre feste di paese.

Se Alessandro, fedele “scudiere” nella “missione” di Gabriele, ha lasciato gli occhi sulle tette di una moretta niente male, Gabriele sta fumando una sigaretta prima di risalire in macchina: siamo nella vietta di accesso a un parcheggio, giusto a pochi passi dal fiume.

Accelerata, inchiodata, botto: la moto striscia a terra per oltre venti metri lasciando la classica striscia d’olio, il motociclista rovina al suolo, ovviamente senza casco, evitando per poco l’impatto con le auto parcheggiate. Un nugolo di persone, noi compresi, si avvicina al ragazzo che rimane cosciente, nonostante gli sanguini la testa, all’altezza della fronte. Alcune ragazze, visibilmente preoccupate e shockate, fanno allontanare tutti, lo sollevano da terra mettendolo in qualche modo seduto: hanno un cellulare, fanno alcune chiamate, ma non si capisce bene chi stiano chiamando. Un’ambulanza? Ratko, una sorta di “Virgilio serbo” di Gabriele, dice di no: i ragazzi sono studenti di medicina e si conoscono tutti. “Come fai a saperlo?” chiede Alessandro: “Che forse capisca le conversazioni?” replica sorridendo Gabriele. In un minuto il ragazzo si alza e, con un’andatura caracollante ma non troppo considerando il botto, va a sincerarsi delle condizioni della moto.

L’idiota – come direbbe Dostojevskj - non aveva visto la sbarra dell’uscita del parcheggio abbassata, aveva accelerato e poi frenato di colpo, perdendo il controllo della moto. Sfoderando una sensibilità dubbia nei confronti della situazione, noi ci si gira “come girasoli” per salutare il passaggio di tre altre fanciulle che rientrano verso casa. Mentre noi ci si chiede se abbia sbattuto con la testa alla sbarra (la mia risposta è no, la sbarra è pulita: inoltre sarebbe morto!), l’idiota sale in macchina con le aspiranti dottoresse (tra l’altro “molto bone” si osserva dal nostro punto di vista, ma forse messe maluccio per star dietro a un idiota così) che escono dal parcheggio e lo portano via. E anche noi si sale in macchina, anche senza essere aspiranti dottoresse, pronti al rientro a casa.

Due curve ed ecco una pattuglia della polizia. "Secondo me ci fermano": detto fatto, il vibratore che il poliziotto ha in mano si illumina di rosso. Gabriele non si scompone e immediatamente mostra il passaporto: "I am Italian". Ratko chiede se deve tradurre, Gabriele dice di no "E' bene che pensi che siamo stranieri". Ecco che mostra anche patente e carta di circolazione. "Did you drink something?" chiede il poliziotto, "no" ribatte secco Gabriele. Il poliziotto rende i documenti e saluta.

venerdì 6 febbraio 2009

NUMERO DIECI

E RICEVEVA MESSAGGI DI AUGURI IN QUASI TUTTE LE LINGUE DEL MONDO...

Mai avrei pensato di ricevere settantasette messaggi provenienti da 20 nazioni in dieci differenti lingue: ovviamente con la complicita' di Facebook.

Ebbene si, il fantastico mondo di Facebook, a metà strada tra reale e virtuale, rende bizzarro anche il semplice compiere gli anni. I più sinceri messaggi degli amici di lunga data si mescolano con il semplice “auguri” che infondo costa poco a chi si è semplicemente ritrovato in un angolo del monitor un simpatico promemoria. Gli “hope you are doing well” di chi hai incontrato fugacemente in un seminario in Germania si alternano con il comprensibile “in qualunque parte del mondo tu sia” opera di chi fa giustamente fatica a seguire tutti gli spostamenti. Alcuni preferiscono usare l’idioma-madre (azero o macedone che sia), altri ripiegano sull’internazionale inglese: ex colleghi, amanti mancate, semplici conoscenti, compagni di università, di palestra, di bevute. Le rimpatriate “come ai vecchi tempi” ormai non si contano più, sicché anche i compagni delle medie e delle elementari – ritornati improvvisamente alla ribalta - si lanciano in improbabili (sicuramente piacevoli) “facci sapere quando torni in Italia così organizziamo una pizza e ci racconti tutto…”. Mamma, che realisticamente ha perso la speranza, se la ride sotto i baffi.

“Fai compleanno oggi? Come Vlade Divac!” sorride Sasa (per la cronaca, il gigante serbo li compie un giorno dopo): Spomenka sorride, ti guarda e ti chiede quanti anni, mentre ti afferra le orecchie tirandole verso l’alto, gradualmente ma in un colpo solo. “Che ho fatto di male? - ti domandi ricordando i tempi in cui le orecchie si tiravano ai “bambini monelli” – “che non le piacciono i Ferrero Rocher?” Ma quando anche nella stanza adiacente Ivana te le tira nello stesso modo, realizzi che in Serbia si usa così: in Istituto gli inaspettati cioccolatini sembrano essere stati apprezzati all’unanimità. Storia di un compleanno itinerante: due anni fa era Romania, un anno fa Danimarca, questo anno tocca alla Serbia. Chissà l’anno prossimo: ovviamente non oso immaginarlo. E nemmeno mamma.

Diciamo pure che festeggiare la morte che si avvicina non è mai stata una mia priorità. Anzi, il pensiero di invecchiare tradizionalmente gettava un velo di tristezza anche nelle mie personali celebrazioni per il nuovo anno, con il pensiero che volava all’imminente compleanno, nel giro di un mese abbondante. Compiere ventisette anni senza sentirseli addosso, essere orgoglioso per ciò che si è fatto anche se in realtà “si è ancora a zero, come la farina”. Certezze zero, idee tante: voglia ed energia “a mille”, prospettive tangibili minime. Mentre la crisi internazionale dipinge scenari imprevedibili, il tempo passa inesorabile sulla mia povera testolina, che lentamente diviene sempre più calva: da qualche settimana ho anche un’ombra bianca nella barba, all’altezza del mento. Che l’età adulta si stia impossessando di me? Sarebbe ora, direbbe mamma.

Mi scappa una risata bonaria se ripenso al malessere che provai l’indomani della festa di laurea, quando riaccompagnai alla stazione mio cugino Stefano, salito appositamente a Milano, che ripartiva per Roma: ritornando in macchina verso casa, totalmente soprappensiero, piazzai un’inchiodata di fronte a un semaforo rosso assolutamente sfuggito alla mia attenzione. Smarrimento post-laurea, conclusione di una fase della vita, inizio della transizione verso l’età adulta. Questa volta la stazione non era la Centrale, a partire non era mio cugino Stefano, la destinazione non era Roma e le celebrazioni non riguardavano la laurea. Per giunta in sottofondo Mariah Carey cantava “Cheeeenliiiiiiiiiiii”. Una singolare sensazione attraversava la mia testolina. Come porsi di fronte a chi si spara dodici ore di treno per venire a trovarti e festeggiare il tuo compleanno in una città straniera, varcando due confini, per “non lasciarti solo”? Che forse dovresti salire su quel treno? Mamma annuirebbe convinta.

Sinceramente non lo so. Quello che so è che anche a Belgrado la lista delle “mai avrei pensato di…” si è allungata. Per esempio al Hala Sportova (arena dello sport) di Novi Beograd in cui, più o meno casualmente, mi son ritrovato seduto al tavolo segnapunti in un incontro amichevole di volley femminile tra due squadre di serie A (il che significa una categoria sotto la Super Liga serba). O quando, assieme a Federico, siamo entrati allo Sport Café chiedendo di vedere Milan-Bologna: il cameriere, come fosse la cosa piu' normale del mondo, ha sintonizzato appositamente per noi due televisori – in mezzo a una marea di schermi – in corrispondenza del nostro tavolo sulla partita prescelta. E già che ci siamo, aggiungo che mai avrei pensato di gioire per un gol di Beckham (per giunta in maglia rossonera). E mai avrei pensato di perdere due chili in mezz'ora, com'e' accaduto oggi in un incredibilmente caldo mattino belgradese: il filobus numero quaranta diventava infatti sauna per via del riscaldamento "a tavoletta". Con fuori almeno quindici gradi, in un soleggiato mattino di febbraio. Alle Canarie? No, a Belgrado. Cose che capitano. Chi l'avrebbe mai detto?

giovedì 22 gennaio 2009

NUMERO NOVE

QUELLI CHE…

Quelli che “ma il Maestro Pregadio rimane alla Corrida?...”
Quelli che se Mara Carfagna è un Ministro Italiano,
quelli che… perché Nina Moric non è un Ministro Croato?

Quelli che “le toghe rosse sono forcaiole e comuniste…”
Quelli che “quindi io non mi dimetto!”…
Quelli che rispondono “e allora perché dovrei dimettermi io?”…Oh yeah!

Quelli che Lucia Annunziata crede di essere Berlusconi…
Quelli che secondo me numero12 è De Ascentis…
Quelli che “ti stimo fratello!”

Quelle che camminavano con i tacchi a spillo da 12…
Quelle che eppure le strade di Belgrado erano ghiacciate…
Quelle che non sanno cosa farsene del femore! Oh yeah!

Quelle che indossano una fascia tricolore…
Quelle che “la neve? A Milano è andata meglio che a Marsiglia”
Quelle che …con tutto rispetto, ma è una gran soddisfazione?

Quelli che Cristina del Basso è al Grande Fratello…
Quelli che Franco Trentalance era alla Talpa…
Quelli che…ma non ci si poteva organizzare meglio? Oh Yeah!

Quelli che organizzano l’Expo,
quelli che vengono pagati come tranvieri,
quelli che gli vogliono chiudere pure l’aeroporto!

Quelli che Obama da quando e’ diventato presidente e’ brizzolato...
Quelli che “ Juan del Potro tira piu’ piano, diamine!”
Quelli che ammirano Ekaterina Rubleva, oh yeah!

Quelli che “Kakà resta e Shevchenko ha segnato all’Hannover!”
Quelli che Jovetic e’ un fenomeno,
Quelli che il campionato è riaperto!

Quelli che segnano in fuorigioco,
Quelli che “Totti gol!”
Quelli che “forza Napoli!”….oh yeah!

Quelli che Lorenzo del Grande Fratello vive a Belgrado,
Quelli che Beppe Severgnini verra’ a Belgrado,
Quelli che “che ci fai ancora in Italia?”,oh yeah!

Quelli che mi leggono da un pezzo,
Quelli che “sta cosa del “quelli che” l’hai già fatta!”
Quelli che “si lo so però mi piace!”…oh yeah!

Quelli che salutano cordialmente,
Quelli che ringraziano per l’attenzione…
Quelli che dicono “prego per l’attenzione!”

Quelli che “rompete le righe! Ma non le squadre”
Quelli che “non faceva ridere, vero?”
Quelli che “no, neanche un po’!” oh yeah!

lunedì 19 gennaio 2009

NUMERO OTTO

LE PROFONDE DIFFERENZE SUPERFICIALI

Dicesi Yugoslavia la “Slavia del sud”. Dicesi “serbo” lo slavo del sud di religione ortodossa. Dicesi “croato” lo slavo del sud di religione cattolica. Dicesi “bosgnacco” lo slavo del sud di religione musulmana (lascito turco). Dicesi “montenegrino” un serbo diplomatico (quando il referendum rese il Montenegro indipendente dalla Serbia, questa perse cinque ambasciatori - in città importanti tra cui Mosca - tutti di origine montenegrina). Dicesi “sloveno” il polentone della “Slavia del sud” (notoriamente lavoratore, contadino e ricco, ma inevitabilmente montanaro e cattolico: dicesi "Slovenia" la Svizzera della Yugoslavia). Dicesi “macedone” invece di uno slavo del sud che non si capisce bene cosa sia (un po’ serbo, un po’ croato, un po’ albanese, un po’ greco e un po’ bulgaro). Dicesi “kosovaro” un albanese musulmano che vive in Kosovo (lascito turco, ma anche Titino). Dicesi “albanese” un abitante dell’Albania.

Il “serbo” è notoriamente orgoglioso, nazionalista e cattivo. Il “croato” invece è saccente, arrogante e invidioso. Il “bosniaco” non brilla per intelletto: si chiama Mujo, è sposato con Fata, una donna di facili costumi, e ha un amico che si chiama Haso, che conosce bene anche Fata. Il “montenegrino” è pigro, scansafatiche, lento e svogliato. “Serbo”, “croato”, “bosgnacco” e “montenegrino” sostanzialmente parlano la stessa lingua (salvo alcuni localismi) e si capiscono senza problemi. Sono amici, spesso parenti, cenano e bevono assieme, viaggiano senza problemi attraverso le loro frontiere: tuttavia quando ma glielo si fa notare apertamente, in pubblico, litigano e, “per motivi politici”, non si capiscono più e non si vogliono più bene. Lo “sloveno” dal canto suo è tirchio e lavoro-dipendente. Il “macedone” balla e canta (“non cantare in Bosnia, non ballare in Serbia, non ballare e non cantare in Macedonia” dicono nei pressi del lago Ohrid, enfatizzando le loro capacità artistiche). "Lo sloveno e il macedone, per capirsi, devono parlare serbo". Il “kosovaro” invece non è benvisto in Serbia. E viceversa.

“Lo sai qual è la nazione più fortunata? L’Italia, perché è bagnata dall’Adriatico ma non confina con la Croazia” (origini slovene).

Le donne slovene sono bellissime, il problema è uno solo quando si va a letto con loro: non sai mai quando rientra il marito.

Lo sai qual è il record sui cento metri per il Montenegro? 67 metri. Sai come scendono dagli alberi i montenegrini? Si siedono su una foglia e aspettano l’autunno.

Fata cammina dieci metri avanti a Muio. Haso vede la scena e grida inferocito: “Muio, ma lo sai che secondo il Corano non dovresti lasciare la tua donna camminare dieci metri avanti a te?”. “Quando il Corano è stato scritto ancora non esistevano le mine-antiuomo” risponde Muio.

Muio torna dalla Germania dopo la guerra. Sale sulla sua nuova Mercedes e, lentamente e con la musica a tutto volume, gira lentamente per le strade di Sarajevo con tanto di finestrino aperto e braccio fuori. All’ennesimo passaggio l’amico Haso gli grida: “Muio, abbiamo capito che hai fatto i soldi e che hai la macchina, ma quella ce l’abbiamo anche noi, eppure non è che facciamo tutto ‘sto casino…”. “La macchina si ma il braccio no!” risponde Muio.

Muio normalmente picchia Fata ogni volta che rientra in casa: lei sa perché. E anche Haso lo sa.

Haso, cattolico, e Muio, musulmano, sono vicini di casa. Un bella domenica, Haso si sveglia di buon mattino e, vedendo lo splendido sole che batte su Sarajevo, decide di lavare la propria automobile. Muio lo vede dalla finestra e, per non essere da meno, comincia anche lui a lavare la sua automobile. Haso prende ora l’aspirapolvere e pulisce gli interni e i tappetini. Muio, per non essere da meno, prende anch’egli l’aspirapolvere e pulisce gli interni e i tappetini. Haso ora getta alcune gocce d’acqua sul parabrezza per lavarlo. Muio lo guarda, ci ragiona, poi prende il taglialegna e taglia il cofano della sua auto. Haso sente il rumore, strabuzza gli occhi e vede Muio che finisce di tagliare la parte anteriore della sua automobile. Haso è shockato e perpleso. Si avvicina a casa di Muio e gli chiede: “Come mai prima hai lavato la macchina e poi l’tagliata in due? Ma sei impazzito?”. Muio lo guarda e risponde soddisfatto: “Impazzito io? E perché mai? Ho solo visto che tu hai battezzato la tua macchina, così ho deciso di circoncidere la mia”.

Molto spesso non è semplice “rendere” le barzellette in una lingua straniera, specie quando i passaggi sono due: se addirittura gli sloveni ammettono che le barzellette in croato fanno più ridere di quelle in sloveno, figurarsi in italiano via inglese.

E non è semplice sorridere senza sapere gli stereotipi che ci stanno dietro. Non è semplice inserirsi nel contesto balcanico senza conoscere l’infinita sequela di retroscena. Tuttavia le barzellette sono un ottimo veicolo per entrare in contatto con le genti balcaniche, scoprendo molto del loro modo di essere e di fare, sempre pronte a sorridere di fronte a una buona barzelletta, indipendentemente dalla “vittima” dello sfottò.

Durante le tavolate conviviali “yugoslave” si canta tutti in coro tutte le canzoni provenienti da tutte le regioni – oggi nazioni – senza impelagarsi troppo in questioni politiche. Dopo qualche bicchiere, specie se i musicisti sono di origine zingara, i balcanici schizzano in pista e, disposti in cerchio, danzano per ore, seguendo i passi del capofila (“si paga un Euro per entrare nel “kolo – la danza popolare – e due Euro per uscirne”, mi diceva un italiano che vive qui da parecchio, sottolineando che dopo un po’ anche loro si stufano). Tra rakia, kolo e canti popolari, diviene difficile riconoscere le sei (ormai sette) nazioni nelle quali la Yugoslavia si è frantumata. Diventa difficile trovare differenze linguistiche, etniche e religiose, indipendente dall’età: che siano “senior” o “junior”, da queste parti ci si diverte con poco, gioendo delle piccole cose, ballano e cantano assieme senza porsi troppi problemi di “immagine” o quant’altro. Arroganza, orgoglio e nazionalismo scompaiono, lasciando spazio a risate, scherzi e barzellette.

Inevitabilmente si finisce per ricordare anche “i vecchi tempi: allora sì che si stava bene! Tutti ci rispettavano e con il nostro passaporto si poteva andare ovunque”. E ancora rispondono con aria perplessa e infastidita quando li si paragona ad alcuni dei vicini: “Beh, infondo in Bulgaria con la crisi del gas è andata peggio che non in Serbia” dicevo a una mia amica che rispondeva secca: “la Bulgaria? Ma per chi c’hai preso?”. Per un membro dell’Unione Europea. La Yugoslavia ancora “non si è allineata”. Scherzi del destino.

Mentre Obama si insedia alla Casa Bianca e l'Inter ne prende tre dall'Atalanta, io mi congedo, rinnovando l'appuntamento al prossimo numero!

giovedì 15 gennaio 2009

NUMERO SETTE

SRECNA NOVA GODINA, BELGRADO!

Chissà quanti femori sono partiti l’altra notte, chissà in quanti si saranno risvegliati con lividi sconosciuti e inspiegabili acciacchi vari, chissà quanti capitomboli e piroette…la pioggerellina apparentemente innocua del pomeriggio infatti, complice la temperatura scesa successivamente abbondantemente sotto lo zero, ha trasformato in una gigante pista da bob tutta la città. Specialmente gli infimi marciapiedi, rendendo problematico il rientro a casa di quanti erano usciti e – a suon di rachia – avevano celebrato l’avvento del nuovo anno (in accordo con il calendario ortodosso, si celebrava nella notte tra il 13 e il 14).

All’uscita dei locali gli allegri belgradesi barcollavano parecchio, e non solo per l’alcool: se i più intrepidi aggredivano il ghiaccio pattinando, molte donzelle prendevano a braccetto il cavaliere di turno, il quale realizzava che in certe condizioni gli stivali col tacco non sono un’idea geniale. Si camminava come pinguini, con passi corti e lenti e andatura guardinga: se sulle strade minori il ciglio della strada, più pulita in virtù del passaggio delle macchine, pareva essere una soluzione vincente, sulle arterie principali forse il marciapiede sembrava più raccomandabile (complice il tasso alcolico degli autisti e il rischio di sbandate, che aumenta in modo più che proporzionale con l’aumento della velocità). A parte una lunga sciata scendendo dall’autobus notturno conclusasi con un placcaggio alla pensilina della fermata (a proposito spero che la bigliettaia compri parecchie medicine con il resto di 31 dinari che mi ha negato per ragioni ancora oscure: non è il danno a darmi fastidio, si tratta di meno di mezzo euro, ma la beffa di essere “gabbato” in quanto straniero), la passeggiata verso casa è stata lenta, tranquilla e divertente. Complice l’assenza di alcool, che non attenua il freddo. Il problema e' ancora d'attualita', come riportava la free press questa mattina, e come pensavo mentre pattinavo in un vicoletto, salvato dalla pronta presa di un energico vecchiettino.

Nell’immaginario collettivo italico, l’Est Europa fa rima con freddo, gelo, palazzoni grigi squadrati, povertà diffusa, ultraricchezza concentrata nelle mani di pochi, chiese ortodosse, caratteri cirillici, falci e martelli, criminalità generalizzata, lunghe file nei mercati, ubriaconi colbacco-muniti e belle donne, generalmente alte, bionde e prive di cellulite, di facili costumi e discretamente venali. E poco importa che sia Lituania, Ungheria, Russia, Bucarest, Varsavia o Praga…infondo che differenza c’è?

Indubbiamente lo scenario innevato “fa molto est Europa” anche a Belgrado: le espressioni infreddolite delle genti serbe evidenziano oltremodo il carattere slavo dei volti. Mentre camminano per le strade, mentre aspettano i mezzi pubblici, mentre fanno la spesa nei mercati, mentre spazzano la neve dai marciapiedi (gli uomini con le pale, le donne con le scope), gli occhietti verdi o azzurri guadagnano vivacità, spiccando vispi tra berretti innevati, sciarpe e rughe che segnano la pelle chiara, che arrossisce intensamente in corrispondenza di guance e naso: le espressioni più peculiari albergano nei visi delle persone anziane, talvolta stanche e smarrite, talvolta pensierose e rabbuiate, talvolta sorridenti ed energiche.

Il sale viene solitamente distribuito a mano, un po’ come le mondine seminano il riso, mentre le strade sono sempre rimaste sostanzialmente pulite in virtù del passaggio degli spazzaneve: la circolazione di veicoli e mezzi pubblici è stata costantemente regolare. Durante le feste Belgrado sembrava Copenhagen: tutto era ordinato, in giro non c’era nessuno, i negozi erano chiusi, le strade silenziose, deserte e prive di traffico, il tutto avvolto nel bianco candore della neve, che è ormai diventata brutta, sporca di fango e nera a causa del rientro in città, dopo le vacanze natalizie, di traffico, disordine, rumore e confusione generale, che rendono nuovamente la città riconoscibile, nel suo carattere burrascoso, caotico, spigoloso e disorganizzato, ma anche vivo, colorito, colorato e spensierato.

Ed è sorprendentemente tornata anche la luce: l’audace politica energetica di Tadic (abile nell’ottenere gas da Ungheria e Germania per tamponare l’emergenza e generoso nell’offrire aiuto a Sarajevo, una volta che la situazione serba sembrava prossima alla normalità) e il (temporaneo?) disgelo tra Kiev e Mosca, permette infatti di illuminare nuovamente “a festa” il centro e i suoi addobbi natalizi, proprio a partire dall’ultimo giorno dell’anno serbo. E proprio ora che le feste sono finite.

Insomma si ricomincia: Srecna nova godina, Belgrado!

venerdì 9 gennaio 2009

NUMERO SEI

IL NATALE QUANDO ARRIVA ARRIVA…

Caro Babbo Natale,

come va? Come stai? E’ passato tanto tempo dall’ultima volta che ti ho scritto: forse sarai sorpreso nel ritrovarmi nel cuore dei Balcani dopo tanti anni, e sinceramente mi viene difficile riassumere in poche righe quello che mi è successo nel recente passato. Sono in ritardo, ma non di così tanto come si potrebbe pensare di primo acchitto: a Belgrado era Natale l’altro ieri.

Non ho regali da chiederti né promesse da farti, semplicemente da qualche giorno mi capita di pensare a te, così ho deciso di scriverti. Sinceramente non so dirti se sia stato bravo o cattivo negli ultimi tempi: ho cercato di fare del mio meglio e di impegnarmi, ho provato a cogliere al volo le occasioni che mi si sono presentate e ho altresì cercato di crearmene quante più possibile. Sono successe veramente tante cose, tante ne stanno succedendo e tante ne stanno per succedere. Sono cresciuto e sto crescendo, anche se l’età adulta la sento ancora lontana.

Tempo di Natale, tempo di bilanci di fine anno. Ebbene il 2008 è stato un anno veramente strano: è difficile descriverti quanto mi abbiano cambiato le esperienze danesi, montenegrine e belgradesi, ed è difficile descriverti quanto mi senta migliorato come persona, come uomo e come professionista. Ho conosciuto veramente tante persone, ho fatto tante cose, ho viaggiato molto e imparato tanto. Sento la mia vita completamente trasformata e contemporaneamente ancora in trasformazione.

Ma ancora ricordo il disagio di Febbraio quando, solo in una città straniera, “festeggiai” per la prima volta il compleanno “in solitaria”, improvvisamente pervaso dalla nostalgia per un’infanzia felice in cui si festeggiava a colpi di Fivelandia, immerso nel calore della mia famiglia in compagnia di un manipolo di amichetti. E pensando al Natale, il mio ricordo non può volare a quando, entusiasta, aprivo con mamma e papà il “baule di Natale” e tutti assieme si preparava albero e presepe: mi divertivo tanto, anche a prepararmi il mio presepe in cameretta, talvolta guarnito con macchinine e trattori, ma tanto che importa? Ancora ricordo con quanto entusiasmo ti scrivevo, lasciandoti la finestra aperta e una tazza di caffè per ritemprarti e farti rimanere sveglio, pronto a svegliarmi la mattina del 25, leggere la tua lettera, trovare la tazzina vuota e uno splendido regalo sotto l’albero: trenini e macchinine elettriche, i Masters, il Canta Tu, il ring per gli eroi del wrestling e via discorrendo. Ricordo anche le poesie e le canzoni che, imparate a scuola, esibivo durante l’infinita gustosa cena preparata da mamma, ricevendo in cambio applausi e mancette.

No, non guardare l’espressione triste, davvero non è il caso. Guardami piuttosto quando alla mattina mi sveglio con l’entusiasmo di chi è felice perché un nuovo giorno comincia. Di chi ha voglia di saltare, di fare, di correre, di volare. Di chi sorride alla donna delle pulizie, agli inservienti che in mensa preparano il cibo, alla vecchietta che rifiuta il posto sull’autobus, a chi prova a dare indicazioni senza una lingua comune. Regalo “grazie” e pacche sulle spalle a chiunque, provando a ridere e scherzare con tutti pensando che c’è gente che se la passa davvero peggio. Gente che mentre io ero nel pieno di un’infanzia felice, magari giocando coi soldatini, piangeva sotto i bombardamenti, perdendo familiari e amici (in un diabolico-reale “indovina chi”), gente che rimaneva mutilata per un salto strampalato su una mina antiuomo. Gente che al primo sguardo non si vede, ma che c’è. Ragazzi come me, che hanno avuto la sfortuna di nascere in Bosnia, in Hercegovina, in Serbia, in Kosovo.

E’ stato un Natale stranissimo, quest’ultimo. Correva infatti il 25 dicembre quando raggiungevo Ljubljana in treno per festeggiare Capo d’Anno, lasciando in Serbia un’atmosfera decisamente surreale: una nevicata consistente imbiancava una Belgrado completamente “feriale”. E ancora più surreale era l’atmosfera "festiva" belgradese del 7 gennaio al mio rientro: strade deserte e imbiancate, negozi chiusi, silenzio totale: con due settimane di ritardo rispetto a noi, il Natale arrivava anche in Serbia, regalando un po’ di tranquillità e pace anche all’irrequieta caotica iperattiva Belgrado.

Bene, caro Babbo Natale, la lettera volge al termine: se non ti sei addormentato venti righe fa probabilmente ti starai chiedendo il perché di tutto ciò. Ebbene volevo renderti partecipe dei pensieri che mi hanno accompagnato lungo l’infinita Croazia durante il viaggio in treno e per chiederti un piccolo regalo, qualora tu lo ritenga opportuno: vorrei un tele-salva-la-vita-Beghelli che mi ricordi quanto sia fortunato, vorrei un cicalino e una spia rossa che si attivino nei momenti in cui non mi rendo conto di cosa sia una sciocchezza. Perché troppo spesso mi dimentico di quanto io sia fortunato nell’disporre di un corpo sano e di un cervello discretamente funzionante, di avere una famiglia che mi vuol bene, che mi supporta (e sopporta!) e che crede in me, e, last but not least, di poter contare su diverse persone che mi ammirano, che mi vogliono veramente bene, che “so che sono lì” pronti a fare il tifo per me ovunque io sia e qualsiasi cosa io faccia. Persone che mi accettano per quello che sono e che credono in me.

Certo, se proprio volessi portare in Serbia un po’ di gas, non ti nascondo che potrebbe tornare utile, di questi tempi: magari si potrebbe ritornare a riscaldare i mezzi pubblici, a illuminare nuovamente la cattedrale di Santa Sava – desolatamente buia e cupa - e le vie del centro - in cui è svanito lo spirito natalizio - e riaprire le mense studentesche in centro città, chiuse per un po’ per mancanza di studenti - rientrati a casa per le feste – in parte per mancanza di energia – così come mi pareva di evincere dal cartello apposto all’ingresso.

Già che ci sono, ti allego il cv: se avessi bisogno di uno stagista penso di poterti e volerti dare una mano più che volentieri, infondo dopo Lituania, Russia, Romania, Danimarca e Serbia, un’esperienza in Finlandia nel mio cv non stonerebbe nemmeno un po’!

Un abbraccio, a presto, saluti alla Befana e alle renne. In fede,

Antonio