Deambula con fatica, zoppicando poggia il bastone e caracollando sale il primo scalino. Lo forzo continua, la gente si scansa per agevolare il passaggio finché anche il secondo è andato. Nemmeno il tempo di mettersi in piedi appoggiandosi a un palo che un ragazzetto si alza per cedere il posto. Vecchio o vecchia che sia, la procedura è frequente e ben oleata: sui tram e sugli autobus belgradesi il fair play regna sovrano, anche con le donne, specialmente se pargolo-munite. Anche perché non di rado capita che il tram sia costretto a repentine inchiodate capaci di scaraventarti tre o quattro metri in avanti. Ogni volta che si libera un posto, scatta un gioco di sguardi prima dell’appropriamento, normalmente a pannaggio del più anziano/a. Nonostante sia parecchio incasinata sotto ogni punto di vista, Belgrado rimane una città civile ed educata. Anche di notte mentre si cammina per le strade – tendenzialmente illuminate – non si ha paura: forse perché non c’è nessuno che all’improvviso sbuca da dietro un lampione gridando “Cù cù!” (quest’ultima frase l’ho letta su un “pizzino comunista”).
lunedì 24 novembre 2008
NUMERO TRE
Deambula con fatica, zoppicando poggia il bastone e caracollando sale il primo scalino. Lo forzo continua, la gente si scansa per agevolare il passaggio finché anche il secondo è andato. Nemmeno il tempo di mettersi in piedi appoggiandosi a un palo che un ragazzetto si alza per cedere il posto. Vecchio o vecchia che sia, la procedura è frequente e ben oleata: sui tram e sugli autobus belgradesi il fair play regna sovrano, anche con le donne, specialmente se pargolo-munite. Anche perché non di rado capita che il tram sia costretto a repentine inchiodate capaci di scaraventarti tre o quattro metri in avanti. Ogni volta che si libera un posto, scatta un gioco di sguardi prima dell’appropriamento, normalmente a pannaggio del più anziano/a. Nonostante sia parecchio incasinata sotto ogni punto di vista, Belgrado rimane una città civile ed educata. Anche di notte mentre si cammina per le strade – tendenzialmente illuminate – non si ha paura: forse perché non c’è nessuno che all’improvviso sbuca da dietro un lampione gridando “Cù cù!” (quest’ultima frase l’ho letta su un “pizzino comunista”).
giovedì 20 novembre 2008
NUMERO DUE
DENTRO O FUORI?
Tram che sferrazzano, rombi di motori, polvere alzata dalle gomme nelle partenze in salita, colpi di clacson, tamponamenti all'ordine del giorno. Nonostante i poveri poliziotti, pettorina gialla, palettina rossa e fischietto in bocca, si impegnino a fondo per favorire un "normale" flusso di veicoli, talvolta anche indirizzando i perplessi automobilisti sulle “preferenziali” dei tram, verrebbe da dire che "il vero problema di Belgrado...è il traffico". Sembra infatti che le arterie principali che varcano il paese - sia su ruota coperta che ferrata - passino scientificamente dal centro della città intensificando il traffico cittadino, figlio della crescita esponenziale del numero dei veicoli nella capitale serba degli ultimi anni. Le colline non aiutano una normale pianificazione dei trasporti, sicché l’unica linea di metropolitana include solo due stazioni (esatto, ci siamo capiti: va da A a B e viceversa).
E “confine” è sicuramente una delle parole-chiave per capire la regione. Un tempo ultimo avamposto d'Europa di fronte all'invasore ottomano, lungo la Serbia corrono anche i confini interni al mondo cristiano che separano l'ortodossia dal cattolicesimo. Sul piano della scrittura, l'adozione simultanea di due alfabeti pone la Serbia a mezza via tra i “cirillici” macedoni e bulgari e tutti gli altri “vicini”-“latini”: parificare due sistemi di scrittura è impossibile, sicché i documenti ufficiali sono redatti in cirillico, con la benedizione della chiesa ortodossa e delle componenti nazionaliste, anche se il latino rimane largamente utilizzato, sulle targhe delle automobili, per rimanere in tema, che qui son tutte targate Bergamo.
Il Danubio, che oggi separa Novi Beograd da Belgrado, un tempo divideva l'impero austroungarico da quello turco. Ragion per cui, probabilmente, le rotte stradali passano attraverso la capitale, rendendo il traffico discretamente caotico.
“…E pensare che volevo scrivere qualcosa di divertente e spensierato” penso, mentre rileggo quanto scritto finora. E immagino le facce dei miei cari amici lettori, che si aspettavano di capire se valga la pena o meno di preparare passaporto, armi e bagagli e di rischiarsela su un volo Jat per vedere…la cattedrale di Santa Sava. Ebbene l’osservazione “spannometrica” per le vie belgradesi sembra denotare una chiara influenza del recente passato sulla composizione demografica della popolazione, non tanto perché manca una generazione maschile (all’incirca tra i trentacinquenni e i quarantacinquenni) quanto perché il genere femminile sembra largamente dominante (come conseguenza).
Ci sei rimasto male? Dai, non fare così, tanto son sempre qui, non scappo! www.corrieredellaserbia.blogspot.com ! Dillo ai tuoi amici!
mercoledì 5 novembre 2008
NUMERO UNO
Considerando che la gravidanza degli elefanti dura venti mesi, considerando che gli ebrei ancora stanno aspettando il Messia, considerando che l’Inter è riuscita a rivincere ancora dopo la caduta del muro di Berlino, considerando che Heinstein considerava lo spazio ma soprattutto il tempo come fenomeni relativi, direi che un mese e tre giorni è un attesa ragionevole per il primo numero del Corriere della Serbia.
Un mese abbondante è infatti passato da quando, in un mattino di ottobre, uscivo dalla stazione dei treni di Belgrado con armi e bagagli, pronto ad affrontare la Serbia e le sue insidie.
Belgrado. Comodamente adagiata su morbidi colli, giusto sulla confluenza tra Sava e Danubio, la città è un susseguirsi di palazzi moderni ed edifici d’epoca, catapecchie e grattacieli, di diversi stili; una serie di chiese e chiesette – tra cui spicca senz’altro la cattedrale di Santa Sava - rendono la città decisamente carina. I ponti che la collegano con la moderna Novi Beograd rendono lo scenario notturno veramente stupendo.
In un mese abbondante di permanenza ho scoperto una cosa sola: il “fattore B”. Ogni giorno che trascorri a Belgrado, ogni mattina quando cominci la giornata, non appena apri gli occhi, già sai che c’è qualcosa che non funzionerà, ma a priori non sai mai cosa sia. Generalmente è il tram che si fa attendere per ore o che non passa proprio, ma guai a sottovalutare tutto il resto: Belgrado è una città ricca di insidie, dietro ogni angolo, dietro ogni apparentemente insignificante dettaglio. La pioggia ("buona fortuna" se hai bisogno di un ombrello e sei lontano dal centro), l’orario di chiusura di un ufficio, la mancanza di un anglofono quando serve, un’assurda procedura spiegata nel dettaglio e con novizia di particolari rigorosamente in serbo, sei ore per una lavatrice, l’acqua calda che, in un insulso pomeriggio, decide sorprendentemente di non uscire dalla tua doccia. Generalmente, è sempre quella cosa alla quale non penseresti mai, specialmente in quel preciso momento.
I belgradesi, dal canto loro, si impegnano a fondo per trovare soluzioni alle avversità relative al contesto e ce la mettono tutta per aiutare lo straniero in difficoltà a volte fermano i passanti chiedendo informazioni per conto degli sciagurati forestieri, altre volte suggeriscono perverse strategie per by-passare i problemi, in altri casi risolvono automaticamente i problemi “alla serba” per loro, “alla bersagliera” per noi.
Ma lo straniero è in costante difficoltà. Il vero problema sembra essere uno: le informazioni non sono mai attendibili. Mai. Nemmeno quando autisti e controllori ti suggeriscono mezzi pubblici e fermate. Nemmeno relativamente alle loro linee. Nemmeno addetti degli info-point turistici quando indicano un particolare ufficio. "Do you have an umbrella?", risposta: "No, it's a supermarket here!". Tutto bislacco, ma tutto vero. Va detto però che non sono mai scortesi, sorridono sempre e in modo spontaneo, genuino, sincero. Sono aperti al dialogo e disponibili, come raramente mi era capitato di trovare in precedenza: non vanno mai di fretta, prendono sempre tutto alla leggera e con calma estrema.
A sentir loro, sono sempre impegnati e indaffarati, anche se in realtà è dura capire cosa facciano. Anzi, a guardarli, troppo spesso sembrano degli autentici rimbecilliti. Faccia da pesce lesso, grinta da pianta grassa, riflessi da bradipo: il belgradese medio risponde a qualsiasi domanda con una semi-muggito effettuato a bocca aperta e con la lingua un po’ fuori, a mezza via tra la “o” e la “e” e la “a”. Non parlo ancora così bene serbo da capire che cosa significhi. Tutti mi dicono che la città vive di notte e che “se non hai visto la vita notturna qua, non hai mai visto Belgrado”. E me lo auguro, specialmente per loro, osservandoli di giorno: spero che almeno di notte effettivamente si divertano. Si riempiono la bocca con questi “Chiamami se hai bisogno di aiuto” oppure “ti chiamo la settimana prossima così organizziamo”, ma troppo spesso anticipano il non rispondere alla tua chiamata (nel primo caso) o al non trillare del tuo cellulare (nel secondo).
Normalmente un giornale che si rispetti comincia con un editoriale dove vengono spiegate le ragioni che hanno indotto a fondare una nuova testata e gli obiettivi che ci si prefigge. Il Corriere della Serbia invece comincia a caso. E in ritardo, per giunta. E allora ecco la premessa a una pagina di sproloqui: ho ottenuto una borsa di studio dal governo serbo per essere post-graduated researcher alla facoltà di Scienze Politiche dell’università di Belgrado. Mi occuperò del valore sociale dello sport, con il supporto dell’ISCA – International Sport and Culture Association (l’ong per la quale lavorai in Danimarca).
La seconda domanda, meno banale, riguarda il perché solo ora, se a Milano non mi si vede da un po’. Ebbene sono a Belgrado dal 13 ottobre, ma le prime settimane, tra lavoro, documenti, tram che non passano (più un rientro forzato a casa-Italia per un colloquio lavorativo) sono servite a darmi il benvenuto nella seconda città più grande dei Balcani. Qua serve una tessera per far tutto, ma se il sistema danese ti fa aspettare una vita per ottenere la yellow card, passe par tout scientificamente polifunzionale, il sistema serbo ti fa sudare sette camicie per ottenere un numero difficilmente estimabile di singole tessere monofunzionali dall’efficienza dubbia. Se la prima settimana se n’è andata per collezionare le tessere, la seconda è partita per la fiera del libro, dove ho avuto modo di lavorare e di incontrare anche Tadic, a passeggio tra gli stand. Se la terza ha segnato il mio primo contatto con l’università, la quarta è stato un rientro forzato in Italia per un interessante colloquio. Il tutto è stato condito dalla terribile logistica balcanica di cui sopra, sicché la quinta se n’è andata per la preparazione del primo numero. Cui seguirà il secondo, in meno di cinque settimane: promesso.
Parola di serbo.