giovedì 30 aprile 2009

NUMERO VENTUNO

COME DICEVA LUBRANO…

Quando si capiscono le regole che governano la metropolitana, si capisce molto di un popolo e di una nazione. Era così a San Pietroburgo, dove tutto il vagone rideva in faccia alla svampita turista italiana che realizzava di esser stata derubata nel momento in cui saliva sul treno. Era così a Copenhagen dove la regola del lasciar scendere prima di salire non viene intaccata nemmeno da passeggini e biciclette, spostati con disciplina dagli schivi passeggeri che scelgono il posto più isolato e lontano dalle altre anime vive.

E’ così anche a Milano dove i locali camminano con celeberrima rapidità togliendo le scarpe ai neofiti prima di urtare sul solito gruppo che si perde di fronte allo svincolo tra Molino Dorino e Sesto, impallano il traffico di chi proviene dalla gialla. La metropolitana di Bucarest è invece uno spasso. Nemmeno il tempo di annunciare la fermata, che i passeggeri in discesa già fanno la danza maori: sanno che li attende una battaglia per scendere e non sono disposti a lesinare nemmeno un grammo di energia per centrare l’obiettivo. Dall’altra parte il rumore del treno che arriva è percepito come il suono del corno che precede la battaglia: i passeggeri in attesa sanno che li aspetterà una battaglia e non sono disposti a lesinare nemmeno un grammo di energia per centrare l’obiettivo. Il risultato? Non appena le porte si aprono e' guerra, in quanto gli obiettivi degli uni e degli altri collidono. Inutile dire che vale tutto, contro il principio della fisica che direbbe che se uno spazio è occupato da un corpo, non può essere occupato simultaneamente da un altro corpo.

Ma la fisica a volte non funziona. E qui siamo – manco a dirlo – a Belgrado. E’ difficile spiegare come sia possibile, ma certe volte, dopo dieci minuti buoni di attesa, la banchina è gremita. Caracollando lemme lemme, ecco un tram che arriva laggiù infondo. E’ pieno di gente, ovviamente, perché i passeggeri in attesa si sono accumulati. Ne scendono due, ne salgono diciannove: non so dove si mettano, forse c’è un doppio fondo. Ma alla fermata dopo, come per magia, ne scenderanno ancora tre e ne saliranno ventisette, e non capisci nemmeno da sopra dove finisca la gente. A Belgrado i mezzi pubblici – ammesso che passino – si fermano obbligatoriamente a tutte le “stazioni” (stanize, secondo la favella locale), a tutte le ore in tutte le condizioni atmosferiche. L’idea è quella di consentire ai passeggeri di scendere con calma ed evitando a chi aspetta di sbracciarsi alla fermata per richiamare l’attenzione del conducente. Ovviamente non e' necessario suonare il campanello per richiedere la fermata.

Ma non va sempre così liscia. Perché un po’ come le vecchiette di Milano, che si preparano dieci fermate prima per non rimanere ingabolate nel traffico umano, anche a Belgrado capita sempre di imbattersi in una stuola di imbecilli che si ferma giusto davanti all’apertura delle porte, con il risultato di produrre ingorghi e congestioni incredibili anche con il mezzo praticamente vuoto. Il sogno del passeggero medio belgradese in discesa, di fronte alle porte che si aprono, è quello di vedere due ali di passeggeri in salita che si allargano e di trovare un corridoio centrale per uscire e allontanarsi. Diciamo che sogna di essere Pirlo che sta per calciare un rigore a porta vuota.

E invece sa che all’apertura delle porte si sentirà un po’ come Pirlo ma quando batte una punizione da limite: troverà infatti a un metro dalle porte, una fitta barriera umana composta da sciure, vecchi, giovani e meno giovani, disposti uno accanto all’altro lunga praticamente tuta la lunghezza del tram. La conseguenza è che chi vuol scendere, una volta fatto l’ultimo scalino, non mette il piede a terra ma sulla caviglia del Pirlo prima, che nel frattempo si è infranto sulla barriera, che si e' aperta. Chi è in barriera invece, manco avesse sentito il fischio dell’arbitro, si scaraventa incontro al Pirlo di turno e agguanta il corrimano per salire, in barba ai cinquanta passeggeri che tentano di scendere. Anche qui è baruffa, tuttavia va detto che il tutto si svolge pacificamente: normalmente nessuno si fa male e nessuno si lamenta più di tanto.

Perché non ho descritto la metropolitana belgradese come ho fatto per le altre città? Semplice, perché a Belgrado l’unica linea metropolitana – lungimirante e capillare - collega A a B, con un’utilità difficilmente quantificabile. Ovviamente non l’ho mai presa, anche se passo praticamente tutti i giorni attraverso il sottopassaggio di una delle due fermate per attraversare un grosso incrocio.

E’ molto nuova e moderna, con indicazioni precise e bilingui. Ana la descrive così: “E’ l’ennesima grande opera di Milosevic, costosa, sfarzosa e inutile: l’unica che l’ha usata è Ceca per un video”. Ceca (per la cronaca si legge Zeza), tanto bella quanto artificiale, è una cantante dal passato vagamente burrascoso (è la ex moglie di Arkan) e con qualche problemino con la giustizia, che di tanto in tanto riaffiora. Non è impossibile pensare che la sfarzosa fermata di Vukov Spomenik (a dispetto del nome poco amichevole, è in realtà un parco grazioso che ospita una residenza universitaria e due statue, una di Vuk Karadizic, il quale riformo' l'alfabeto cirillico introducendo la variante serba, e una di Cirillo e Metodio, inventori dell’alfabeto glagolitico, il piu' antico alfabeto slavo conosciuto).

E ripensando alle curve di Ceca, la domanda sorge spontanea: ma perché i serbi, quando incrociano una bella serba, non si girano mai a guardarle il culo?

lunedì 27 aprile 2009

NUMERO VENTI

DAL CUORE SERBO ALLA CAVIGLIA ITALICA

“Milosevic? Avrebbero dovuto dargli il Nobel per l’ecologia: durante le sanzioni si è bloccata tutta l’economia, fabbriche comprese, sicché i fiumi son tornati a essere assolutamente puliti”: sorride il padrone di casa, indicando il fiume che, beato e tranquillo, scorre alle sue spalle. Siamo a pochi passi da Ada Ciganlija, ospiti a pranzo dalla famiglia di Lana e Vanda, due studentesse di italiano, che possiede un piccolo splav sulla Sava.

Nemmeno il tempo di arrivare e consegnare un mazzo di fiori alla signora, che ci si ritrova a brindare con un bicchiere di rakia: da queste parti la grappa è un aperitivo, per cui va gustata a stomaco vuoto per godersi il pasto. Tempo di dar un po’ di briciole di pane in cibo alle papere, ai cigni e alle anatre selvatiche che accorrono numerosi, che il cibo è pronto. Benché tutti avessero messo le mani avanti con un “non è facile cucinare la pasta agli italiani”, in realtà gli spaghetti al ragù, per quanto l’abbinamento possa sembrare bizzarro, sono decisamente buoni: “scusateci, ma noi li condiamo con il ketchup e li mangiamo assieme all’insalata” dicono sorridendo i nostri commensali. E dopo l’insalata – come per magia – arrivano una torta di formaggio, salame bulgaro e montenegrino, petti di pollo, uova sode, prima della torta gelato, guarnita con gelato e marmellata. Il tutto in dosi più che abbondanti.

Ovviamente si parla molto di quanto sia splendida l’Italia, del talento di Carosone; poi ci raccontano anche del loro ristorante e di quando – durante le riprese di Quo Vadis – Massimo Ranieri e Sofia Loren cenavano da loro. E di quanto Ranieri apprezzasse sia la discrezione del ristoratore (che tenne lontani giornalisti e curiosi) che la palacinka (pancakes o crepe), ribattezzata da Ranieri “paladieci!“. “Non dovevate disturbarvi così tanto” dice Federico ai genitori, ma la mamma, con aria bonaria, ci risponde che “le nostre figlie ci hanno parlato bene di voi, hanno detto che siete due ragazzi bravi e colti, per cui per noi è un piacere…”. “Cultura? Non basta lavorare all’Istituto di Cultura per essere uomini di cultura!” irrompe il padre: risate generali. Io e Federico sottoscriviamo e condividiamo.

E mentre il padre torna a lavorare sullo splav (che è nuovo, ma da ristrutturare), Vanda e Lana lavano i piatti mentre la madre porge a me e a Federico due sdraio, un tavolino con dolci fatti in casa e due caffè turchi. Chiediamo se serve aiuto, ma ci intimano di rimanere seduti a goderci il sole manco fossimo autentici belgradesi. Ci guardiamo increduli pensando a quanto sia dura la vita degli insegnanti di italiano…a Belgrado! Sorridiamo pensando a chi passa le sue giornate archiviando fatture, facendo fotocopie e incrociando tabelle di excel, magari in un umido ufficio italiano. La musica tranquilla in sottofondo, il riflesso del sole sul lago, la pace regna sovrana. Al momento dei saluti arriva l’invito per la replica: “passate pure a trovarci, noi siamo spesso qua: la prossima volta portate il costume, abbiamo una barca e andiamo a fare un bagno al largo!”.

Pensare che avrei voluto scrivere un post sulla supponenza con la quale i serbi ridono quando gli si dice che “noi si va a Zagabria per il weekend”: “ma che ci vai a fare? E’ piccola, noiosa, non succede niente!” e poi i croati parlano sempre con la “gl” dicendo Mgliiiiieco e non Mleco (che poi significa latte). O della leggerezza con le quali i serbi ridono ogni volta che vengono nominate “Romania” e / o “Bucarest” (da queste parti non è chiaro che il mercato romeno, parte dell'Unione Europea, e' circa il quadruplo – sicuramente più del triplo – di quello serbo e che Bucarest, città con quattro linee di metropolitana, è circa il doppio di Belgrado.

Ma non ci sono riuscito. La Serbia è davvero un paese strano, senza mezze misure. Un paese immobile, statico, lento, rilassato, conservatore, contadino, provinciale. Ma anche un paese popolato da gente semplice, genuina e dal cuore grande e buono. Un paese relativamente povero ma al contempo sicuro e privo di criminalità. Un paese che vive e lascia vivere. Un paese che trova sempre una soluzione e non perde occasione per sorridere, per godersi la vita, per gioire delle piccole cose. Un paese pieno di giovani donzelle che, in tempo di primavera, complice il caldo, diventa difficile da gestire.

Un paese nel quale il nostro eroe ha addirittura ricominciato a fare sport, dopo la borsite degli scorsi mesi. Un paese che sabato sera al Plastic (come definirlo…Discoteca? Carnaio? Senza musica serba? Ci piace, anche se il celeberrimo omologo milanese sembra abbastanza diverso per impostazione e struttura) ho incontrato tre studentesse del gruppo principianti (sono incredibilmente riuscite ad azzardare una presentazione più che decente al Federico, colpito soprattutto dall’amica delle due). Un paese nel quale si pensa polemicamente che d'accordo che con i se e con i ma non si scrive la storia, tuttavia senza quel gol di mani di Adriano e senza la rapina di Siena...

martedì 21 aprile 2009

NUMERO DICIANNOVE

A SPASSO NEL TEMPO TRA LJUBLJANA E BELGRADO

Splende un bel sole e la temperatura è gradevole: atmosfera tranquilla, c’è aria di festa. Le strade sono gremite di polizia, che stende transenne, stoppando e deviando i veicoli: è sabato e si corre la maratona di Belgrado. Tutto sembra ordinato e tutto fila liscio sicché alle 10.30 ci si ritrova – prodotti della Pekara (forno) alla mano – a bere un caffè in un autogrill dell’autostrada, diretti in Croazia. Un po’ come in ritorno al futuro, con Federico nei panni di Doc e una 156 nera a fungere da macchina del tempo, nel giro di qualche ora (accompagnati dall’inconfondibile sound degli Elio e le Storie Tese) ci si ritrova a Zagabria, a circa 10 / 15 anni da Belgrado.

Pulita e ordinata, Zagabria è più Ljubljana che Belgrado: si respira un’aria europea, non solo per le bandiere blu con le stelle gialle che fanno capolino accanto a quelle locali. Privo di Jugo e Zastava (ma anche di Dacia) il traffico zagabrese sembra disciplinato nonostante noi ce la si metta tutta per rimediare una multa, tagliando involontariamente un semaforo palesemente rosso parcheggiando due minuti dopo in sosta vietata, ovviamente sotto gli occhi di un iper-ragionevole poliziotto che si limita a un perentorio rimprovero. Tram colorati e nuovi sfrecciano tra le fermate dotate di tecnologici pannelli che indicano i tempi di attesa delle varie linee: per fare il biglietto è sufficiente scrivere un sms. Elegantissimi anche i cani, tutti con collari e giacchine.

Sul tetto della chiesa di San Marco capeggiano i loghi del comune e della Croazia, disegnati da un caratteristico mosaico di tegole: siamo nella piazza principale della parte alta della città, da una parte c’è il Parlamento, dall’altra il Governo, mentre il comune dista poche decine di metri. A pochi passi dalle stanze dei bottoni, c’è un parco con una vista a 180° sulla città: le guglie della cattedrale tipicamente gotica (Santo Stefano d’Ungheria, che ricorda vagamente Notre Dame) dominano il panorama, composto essenzialmente da palazzi e palazzoni, edifici in mattoni e, qua e là, qualche chiesa (anch’esse in mattoni con campanili appuntiti: ricordano vagamente le chiese luterane danesi). Dal monumento equestre, fulcro della piazza Ban Jelačić – la piazza principale nella parte bassa – partono due caratteristiche viette piene di bar, pub, locali e ristoranti, fulcro della movida zagabrese: una si arrampica fino alla parte alta (in alternativa c’è una comoda funicolare) mentre l’altra porta alla cattedrale, attraversando la piazza del mercato. A pochi passi c’e’ un altro caratteristico mercato dei fiori.

Probabilmente il serbo non è la lingua migliore per approcciarsi alla gente, pena il siciliano “nzu” con il quale uno svogliato cameriere risponde alla domanda “possiamo pagare in Euro?”: benché seduti al tavolo di una pizzeria in pieno centro, il suddetto cameriere rifiuta anche di approcciarsi al tavolo per prendere le ordinazioni. Il senso di marketing non sembra esattamente sviluppato: se sabato pomeriggio molti negozi del centro sono chiusi manco fossimo a Copenhagen, la domenica l’iper-moderno centro commerciale rasenta il ridicolo, in quanto il complesso è aperto ma le saracinesche dei negozi sono sistematicamente abbassate.

Una delle prime connessioni che il viandante italico fa con la Croazia e’ il calcio, per cui uno dei primi nomi che vengono in mente è sicuramente quello di Zorro Boban: dopo una brillante carriera costellata di trionfi e trofei internazionali in maglia rossonera, Zvone ha deciso di appendere le scarpette al chiodo, ritirandosi dalla scena pubblica e dedicandosi prevalentemente alla famiglia. Ma anche alla gastronomia: il suo caffè-ristorante – che ovviamente porta il suo nome - propone prezzi ragionevoli, atmosfera elegante, servizio puntuale e – cosa fondamentale – cibo ottimo. Non lontano dal ristorante Boban, c’è la splendida piazza intitolata al Maresciallo Tito: e splendido è anche il teatro nazionale, circondato da giardini con bellissime composizioni floreali.

Il rientro a Belgrado avviene nella serata di domenica: dopo un buon piatto di pasta alle cozze, ci si è ritrovati a spalmare la Nutella su una colomba, regalata a Federico da un amico italiano. Ecco, questo è l’unico momento vagamente Pasquale del 2009: sia sull’ammiraglia a seguito dei ciclisti del Serbia Delta Tour (nel giorno in cui i cattolici ricordavano la Resurrezione) che nel weekend croato (nel giorno in cui toccava agli ortodossi celebrare la Pasqua), gli elementi Pasquali sono sostanzialmente mancati. Sarà per l’anno prossimo…

giovedì 16 aprile 2009

NUMERO DICIOTTO

LA PASQUA? QUANDO ARRIVA ARRIVA!

Dopo una notte brava con il solito Federico, il solito raggio di sole ti centra impietosamente l’occhio sicché - anche se sono le 9.30 - il sonno se n’è bello che andato. Colazione veloce a base di wafer e latte, doccia e lavaggio a mano dell’abbigliamento intimo settimanale. Presi i test, si punta trg Republike (piazza della Repubblica): se normalmente sotto il cavallo di fronte al museo Nazionale ci si aspetta per gli appuntamenti, a mezzogiorno e mezza è prevista la partenza della Delta Tour, una corsa ciclistica che vede impegnati le categorie juniori e i seniori: il percorso prevede 115km e passa per Pancevo (ridente centro industriale - circa 100.000 abitanti - ubicato a 15km da Belgrado noto soprattutto per una raffineria bombardata dalla Nato e per un film horror recentemente girato tra i capannoni), Kort, Smerderevo (splendida località adagiata sul Danubio tra morbide colline di alberi da frutto in fiore, nota soprattutto per il castello della Despota Stefana) e ancora Belgrado, prima dell’arrivo in salita di Rakovica.

Dall’auto della giuria la corsa si segue che e’ un piacere: la corsa “dal vivo” a due passi dai ciclisti e’ veramente spettacolare, tra cronometri, collegamenti radio, ammiraglie, ambulanze e moto della polizia (il mitico Ranko, fact totum della federazione ciclistica, non sta quieto un attimo!). E’ spettacolare e divertente, specie quando i ciclisti scalano un paio di colli poco prima del traguardo. La catena del “mai avrei pensato di…” si è arricchita di un altro incredibile anello: anche perché la macchina è guidata da Milenkovic Senior, leggenda vivente del ciclismo yugoslavo prima e serbo poi, padre di Milenkovic Junior, discreto corridore oggi organizzatore del giro di Serbia. Entrambi i Milenkovic parlano italiano ed entrambi si sono dimostrati gentili e disponibili.

Il ciclismo in Italia, quantomeno come immagine, è uno sport “popolare” – forse lo sport “popolare per eccellenza” -, è uno “sport per tutti”, uno sport in cui molto spesso i campioni provengono da famiglie modeste e normali: uno sport che porta la festa e il colore nei paesi sperduti grazie alla carovana del Giro. Il ciclismo in Serbia e’ paradossalmente uno sport “di elite”, uno sport per ricchi. Perché? Bastano poche parole a un costruttore di biciclette per spiegarmi il perché: “Questa bicicletta 5000 Euro, stipendio Serbia 300 Euro, già buono stipendio 300 Euro: pochi ciclisti”. A Belgrado e in Serbia la tradizione ciclistica è molto debole: pedalare per le strade della capitale è un azzardo, in più manca sia una pista che un impianto indoor. Come logica conseguenza, la maggior parte dei circa 150 ciclisti tesserati dalla federazione, non proviene da Belgrado (che conta circa metà della popolazione serba).

L’arrivo della corsa è a due passi dal parco Ciukaricki, dove il giorno prima ha avuto luogo un’altra gara ciclistica, questa volta di cadetti e cadetti “fascia B”, in un circuito interno al parco: sorrido quando mi ritrovo al tavolo dei dirigenti della federazione ciclistica, con di fronte a me sessanta ciclisti in erba che pranzano, chiacchierano e sorridono. Mai avrei pensato di passare una Pasqua così, anche perché infondo a Belgrado non è ancora Pasqua in quanto, d’accordo con il calendario ortodosso, la Pasqua arriva una settimana dopo quella Cattolica.

Per cui la celeberrima gita fuori porta di Pasquetta ha luogo nella facoltà di architettura con sei splendide ore di lezione, quattro con i principianti e due con gli avanzati. Proprio in una pausa della lezione degli avanzati, Goran si fa coraggio e mi chiede di tradurgli alcune parole: “saccente”, “spiffero”, “spezzare”, “polentoni”. Mi insospettisco, così gli chiedo dove abbia trovato queste parole. Sorride e mi dice:”sul tuo blog”. Incredulo, gli chiedo come sia riuscito a trovarlo. “Semplice, cercavo il tuo indirizzo email, ho inserito il tuo nome si Facebook ed era la tua frase, così l’ho aperto”. E come non considerare le lezioni in università “il meglio” della vita belgradese?

Sono veramente fiero dei miei studenti – non solo di Goran, che son sicuro che starà leggendo queste righe -, specialmente dei principianti che migliorano di lezione in lezione. Tutti sembrano seguire con molto interesse i miei sproloqui, anche se i corsi non sono né curriculari né obbligatori. Lo fanno soprattutto perché sognano di andare a perfezionarsi in Italia, iscrivendosi a un corso di studi o in uno scambio Basileus (è l’omologo dell’Erasmus per l’area Balcanica / Mediterranea), ma lo fanno anche perché gli piace la nostra lingua o più semplicemente perché il corso è gratuito.

E nell’attesa che arrivi un’altra Pasqua – domenica, questa volta quella ortodossa – mi congedo, invitando ancora una volta l’Abruzzo a tener duro e a non mollare.

giovedì 9 aprile 2009

NUMERO DICIASSETTE

FORZA ABRUZZO!!!

Lunedi, fine della lezione: Tamara, la mia assistente, mi si avvicina e mi chiede se ho saputo. No, non ho saputo. “Un grosso terremoto a Roma, con morti e feriti…” penso, mentre salgo le scale dirigendomi nel mio ufficio. Ricevo un sms dalla Slovenia, mentre la home del Corriere si sta caricando: ”Se non ho capito male, in Abruzzo c’e’ stato un terremoto”, alzo gli occhi sul monitor e vedo le foto, immediatamente comincio a leggere. Un senso di impotenza mi pervade: e’ triste non poter far niente. E’ triste sentirsi impotenti. Mentre nel mio Abruzzo reganono silenzio, sbigottimento, tristezza. Rispetto.

Era da tanto che non scrivevo niente, tutto avrei pensato, tranne che cominciare cosi. E al danno si aggiunge anche la beffa, leggendo il numero che contraddistingue questo post.

Avrei preferito parlare del weekend che ho trascorso in Italia, di quanto sia stato difficile preparare la valigia dopo soli tre giorni, di quanto sia stata dura salutare Fabrizio, Giuseppe e Paolo, di quanto mi abbia infastidito il ritardo di tre ore dovuto al volo Lufthansa, passato da Francoforte anziche’ da Monaco come previsto. Forse avrei potuto cominciare con le quattro siringhe di liquido che il mio dottore ha estratto dalla mia caviglia in virtu’ di una borsite trascurata: “Lo sport? Ma lasci perdere!” scherzava il dottore che mi ha fatto l’ecografia.

Forse avrei preferito parlare dello scorso weekend, il primo forse “ veramente serbo” da quando sono qui. E penso a domenica quando ci siamo ritrovati a bere un succo in uno splav, direttamente sul Danubio, con un splendido sole sulle nostre teste e l’immancabile cattedrale di San Sava sullo sfondo. Pomeriggio proseguito con una passeggiata lungo il fiume e una cena a base di “cevapi”, delle “salsiccette” a forma di dita originarie della Bosnia.

O forse sarebbe stato bello cominciare con lo splendido sole che sta facendo capolino sul celo belgradese ormai da qualche tempo: l’inverno sembra finito, sicche’ “il cambio di stagione” effettuato in Italia sembra essere – al momento – una scelta vincente e opportuna. Anche se l’inverno e’ finito, Belgrado continua a essere una delle poche citta’ al mondo dove gli unici soggetti a rispettare la distanza di sicurezza sono i pedoni.

Passeggiare sul ciglio del marciapiede rimane infatti sconsigliabile: se il pericolo doccia dovuto alle immense pozzanghere che si formano nelle strade sembra ormai svanito (e’veramente dura per gli automobilisti il non lavare i pedoni), tuttavia rimangono due categorie di nemici dei pedoni. Il primo e’ rappresentato dagli autobus: poiche’ passano sovente radenti al marciapiede, i loro specchietti sporgenti rischiano di tramutarsi in mazze da baseball per le teste dei poveri passanti., che si ritrovano a fare i conti anche con il “parcheggiatore selvaggio”. Esclusi i muri verticali – benche’ i belgradesi se le inventino tutte, ancora non riescono a parcheggiare in verticale -, a Belgrado quando bisogna parcheggiare vale tutto: qualsiasi pertugio e’ buono per lasciare il veicolo. Per cui i marciapiedi (specie quelli piu' ampi) divengono la logica estensione della strada, con automobilisti che – uscendo dal parcheggio e volendo rientrare nel flusso delle auto, non esitano a “fare i fari” ai pedoni che pretendono di passeggiare sul marciapiede.

Avrei potuto cominciare anche con la passeggiata che ho fatto ieri a Kalemegdan, la fortezza medievale che domina l’intersezione tra Danubio e Sava. Se il parco e’ gremito di bambini e famiglie, la “passeggiata” con vista sui fiumi e’ prevalentemente occupata da adolescenti: quelli accoppiati limonano, quelli non accoppiati guardano quelli che passeggiano, piu’ o meno tutti mangiano il gelato.

Dopo qualche "vasca", mi avvicino ai tavoli e alle panchine su cui i vecchi giocano a scacchi: l’osservatore italiano a Belgrado infatti non puo’ non sorprendersi di quanti crocchi di uomini si formino per le strade attorno alle scacchiere. Alla terza volta che mi avvicino, quello piu’ bravo mi rivolge la parola, ma non capisco. Mi dice che per giocare a scacchi la nazionalita’ non conta: quando capisce che sono italiano, ordina a un altro di alzarsi e di farmi posto alla sua destra. Gli altri sembrano rispettarlo: il suo avversario non e’ di livello sicche’ nel giro di un minuto vince e mi invita a giocare. Provo a rifiutare, ma non riesco sicche’ la partita comincia.

Uno del gruppo continua a cantarmi canzoni di San Remo, finche’ il mio avversario lo zittisce, perche’ la partita e’ in corso: dopo che mi ha suggerito due mosse (correggendo due miei grossolani errori), mi ritrovo a dargli scacco-matto. A quel punto mi chiede la rivincita con i neri: anche qui mi corregge due volte, finche’ non si ritrova con un re e due pedoni contro un re e quattro pedoni: si sta facendo buio, la partita e’ pari e patta, con complimenti e strette di mano. “Io gioco sempre a questo tavolo, torna a trovarmi, professore!” aggiunge, scherzando sulla mia professione in Serbia.

Effettivamente un po’ tutti rimangono perplessi di fronte alla mia nuova professione. E io non riesco a dar torto a questa perplessita’: un nero e’ alla casa bianca, io sono professore di italiano. C’e’ aria di crisi, questo e’ quanto. Ed e’ legittimo piangere quando c’e’ crisi. E’ legittimo piangere quando si ha paura. E’ legittimo piangere di fronte alle catastrofi, di fronte alla morte, alla desolazione e al dolore. Ma di fronte alla paura bisogna reagire con coraggio e con grinta: ed e’ questo che spero che le genti abruzzesi riescano a fare. Anche se si trovano in un paese che crede a Vanna Marchi e denuncia per falso allarme i sismologi che prevedono un terremoto (ok, capisco che non si possa evacuare una regione ampia per una previsione infondo non cosi precisa, pero’ diamine la denuncia sembra eccessiva!).

Quello che vorrei per il mio Abruzzo e’ che trovi la forza di reagire, che riesca a rimboccarsi le maniche e che presto riesca a venir fuori da questa immane tragedia. Nessun fenomeno puo’ impedire al sole di risorgere. Domani e’ un altro giorno. FORZA ABRUZZO!!!