giovedì 9 aprile 2009

NUMERO DICIASSETTE

FORZA ABRUZZO!!!

Lunedi, fine della lezione: Tamara, la mia assistente, mi si avvicina e mi chiede se ho saputo. No, non ho saputo. “Un grosso terremoto a Roma, con morti e feriti…” penso, mentre salgo le scale dirigendomi nel mio ufficio. Ricevo un sms dalla Slovenia, mentre la home del Corriere si sta caricando: ”Se non ho capito male, in Abruzzo c’e’ stato un terremoto”, alzo gli occhi sul monitor e vedo le foto, immediatamente comincio a leggere. Un senso di impotenza mi pervade: e’ triste non poter far niente. E’ triste sentirsi impotenti. Mentre nel mio Abruzzo reganono silenzio, sbigottimento, tristezza. Rispetto.

Era da tanto che non scrivevo niente, tutto avrei pensato, tranne che cominciare cosi. E al danno si aggiunge anche la beffa, leggendo il numero che contraddistingue questo post.

Avrei preferito parlare del weekend che ho trascorso in Italia, di quanto sia stato difficile preparare la valigia dopo soli tre giorni, di quanto sia stata dura salutare Fabrizio, Giuseppe e Paolo, di quanto mi abbia infastidito il ritardo di tre ore dovuto al volo Lufthansa, passato da Francoforte anziche’ da Monaco come previsto. Forse avrei potuto cominciare con le quattro siringhe di liquido che il mio dottore ha estratto dalla mia caviglia in virtu’ di una borsite trascurata: “Lo sport? Ma lasci perdere!” scherzava il dottore che mi ha fatto l’ecografia.

Forse avrei preferito parlare dello scorso weekend, il primo forse “ veramente serbo” da quando sono qui. E penso a domenica quando ci siamo ritrovati a bere un succo in uno splav, direttamente sul Danubio, con un splendido sole sulle nostre teste e l’immancabile cattedrale di San Sava sullo sfondo. Pomeriggio proseguito con una passeggiata lungo il fiume e una cena a base di “cevapi”, delle “salsiccette” a forma di dita originarie della Bosnia.

O forse sarebbe stato bello cominciare con lo splendido sole che sta facendo capolino sul celo belgradese ormai da qualche tempo: l’inverno sembra finito, sicche’ “il cambio di stagione” effettuato in Italia sembra essere – al momento – una scelta vincente e opportuna. Anche se l’inverno e’ finito, Belgrado continua a essere una delle poche citta’ al mondo dove gli unici soggetti a rispettare la distanza di sicurezza sono i pedoni.

Passeggiare sul ciglio del marciapiede rimane infatti sconsigliabile: se il pericolo doccia dovuto alle immense pozzanghere che si formano nelle strade sembra ormai svanito (e’veramente dura per gli automobilisti il non lavare i pedoni), tuttavia rimangono due categorie di nemici dei pedoni. Il primo e’ rappresentato dagli autobus: poiche’ passano sovente radenti al marciapiede, i loro specchietti sporgenti rischiano di tramutarsi in mazze da baseball per le teste dei poveri passanti., che si ritrovano a fare i conti anche con il “parcheggiatore selvaggio”. Esclusi i muri verticali – benche’ i belgradesi se le inventino tutte, ancora non riescono a parcheggiare in verticale -, a Belgrado quando bisogna parcheggiare vale tutto: qualsiasi pertugio e’ buono per lasciare il veicolo. Per cui i marciapiedi (specie quelli piu' ampi) divengono la logica estensione della strada, con automobilisti che – uscendo dal parcheggio e volendo rientrare nel flusso delle auto, non esitano a “fare i fari” ai pedoni che pretendono di passeggiare sul marciapiede.

Avrei potuto cominciare anche con la passeggiata che ho fatto ieri a Kalemegdan, la fortezza medievale che domina l’intersezione tra Danubio e Sava. Se il parco e’ gremito di bambini e famiglie, la “passeggiata” con vista sui fiumi e’ prevalentemente occupata da adolescenti: quelli accoppiati limonano, quelli non accoppiati guardano quelli che passeggiano, piu’ o meno tutti mangiano il gelato.

Dopo qualche "vasca", mi avvicino ai tavoli e alle panchine su cui i vecchi giocano a scacchi: l’osservatore italiano a Belgrado infatti non puo’ non sorprendersi di quanti crocchi di uomini si formino per le strade attorno alle scacchiere. Alla terza volta che mi avvicino, quello piu’ bravo mi rivolge la parola, ma non capisco. Mi dice che per giocare a scacchi la nazionalita’ non conta: quando capisce che sono italiano, ordina a un altro di alzarsi e di farmi posto alla sua destra. Gli altri sembrano rispettarlo: il suo avversario non e’ di livello sicche’ nel giro di un minuto vince e mi invita a giocare. Provo a rifiutare, ma non riesco sicche’ la partita comincia.

Uno del gruppo continua a cantarmi canzoni di San Remo, finche’ il mio avversario lo zittisce, perche’ la partita e’ in corso: dopo che mi ha suggerito due mosse (correggendo due miei grossolani errori), mi ritrovo a dargli scacco-matto. A quel punto mi chiede la rivincita con i neri: anche qui mi corregge due volte, finche’ non si ritrova con un re e due pedoni contro un re e quattro pedoni: si sta facendo buio, la partita e’ pari e patta, con complimenti e strette di mano. “Io gioco sempre a questo tavolo, torna a trovarmi, professore!” aggiunge, scherzando sulla mia professione in Serbia.

Effettivamente un po’ tutti rimangono perplessi di fronte alla mia nuova professione. E io non riesco a dar torto a questa perplessita’: un nero e’ alla casa bianca, io sono professore di italiano. C’e’ aria di crisi, questo e’ quanto. Ed e’ legittimo piangere quando c’e’ crisi. E’ legittimo piangere quando si ha paura. E’ legittimo piangere di fronte alle catastrofi, di fronte alla morte, alla desolazione e al dolore. Ma di fronte alla paura bisogna reagire con coraggio e con grinta: ed e’ questo che spero che le genti abruzzesi riescano a fare. Anche se si trovano in un paese che crede a Vanna Marchi e denuncia per falso allarme i sismologi che prevedono un terremoto (ok, capisco che non si possa evacuare una regione ampia per una previsione infondo non cosi precisa, pero’ diamine la denuncia sembra eccessiva!).

Quello che vorrei per il mio Abruzzo e’ che trovi la forza di reagire, che riesca a rimboccarsi le maniche e che presto riesca a venir fuori da questa immane tragedia. Nessun fenomeno puo’ impedire al sole di risorgere. Domani e’ un altro giorno. FORZA ABRUZZO!!!

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