mercoledì 25 febbraio 2009

NUMERO QUATTORDICI

GLI STRANIERI SONO MINACCE O RISORSE?

Treno fermo in stazione, sei seduto assieme alla tua donna, da soli in uno scompartimento. A un tratto entra lei, straniera, benvestita. “Can I take a seat here?” chiede, “Sure” le rispondi sorridendo. Chiacchierata tranquilla, finché lei, la tua lei, non comincia a rifilarle una serie di occhiatacce e di stilettate, che zittiscono la straniera, che si ritira nel suo angolino. Situazione chiara, no?

Bene, perché' ora arriva il difficile. Tu, ragazzotto italiano, vesti i panni della benvestita e la straniera benvestita diventa la fidanzata di un essere croato, vestito con scarpe rosse e bianche da basket, tuta in paille larga e svasata, felpa rossa Adidas con tanto di cappuccio e striscie bianche. Barba sfatta, capelli trascurati.

Considerando gli standard balcanici, il simpatico croato è vestito anche bene in quanto la tuta da queste parti è un capo adatto alle più svariate circostanze: fatta eccezione per il matrimonio, ma solo se si è lo sposo o il testimone, la tuta va bene, oltre che per fare sport, anche per andare in università, per giocare a palle di neve, per passeggiare per le vie del centro, per uscire la sera e, perche' no, anche per un appuntamento galante. Ovviamente la tuta non e' necessariamente di marca e non necessariamente acetata.

Fino ai trent’anni la camicia non sanno nemmeno cosa sia...la cravatta? "Roba da ricchi”.

Che ci fai a Belgrado, ti piace la città, e voi dove state andando? La conversazione è banale, l’orco apparentemente legge un giornale sportivo salvo alzare gli occhi e, di traverso, inquadrarti ogni volta stai per dire qualcosa di discutibile dei paesi o delle genti jugoslave, squadrandoti con sufficienza quando critichi la logistica belgradese (“di fronte all’Istututo c’è un semaforo lentissimo: normalmente attraverso la strada quattro volte al giorno: anche calcolando di perdere cinque minuti di media, in un mese significa due ore, in un anno un giorno”) e insegnandoti con saccenza che “sai, una volta eravamo un paese”, quando osservi che al pari della sua donna, nata in Bosnia ma cresciuta in Croazia, che un po’ tutte le genti balcaniche sono mescolate. Il treno parte, la conversazione si arresta.

Se con lei, di tanto in tanto, c’è qualche scambio di convenevoli (“scusami, potrei passare? Grazie” o “rimani qua? Possiamo lasciare il laptop?"), mentre lui baccaglia in croato che non è il caso di parlare inglese con questo italiano qua: lei ride, ogni tanto lo bacia per zittirlo. Dopo un po’, mentre io ero in bagno, lui l’ha fatta spostare sedendola di fronte a lui accanto al finestrino: con una gamba di qua e una di la, crea un recinto attorno alla sua proprietà privata, dai chiari capelli e occhi azzurrissimi.

L’apoteosi arriva a pochi chilometri da Zagabria: grazie al wireless, il simpatico croato si connette a internet, tira su il volume delle casse e mostra a lei, in modo che anche tu possa sbirciare, la curva della Dinamo – probabilmente non la più cosmopolita della regione – che canta canzoni in cui una parola su due e' "Hrvatska". Zagabria è però più vicina del previsto, sicché lui ripone il pc in fretta mentre lei, avvolta nel suo cappotto verde, sorridendo augura buona fortuna e buon proseguimento di viaggio, uscendo dallo scompartimento. Lui tira giù il valigione con uno scatto, rovesciando le lattine di Coca Cola che si è scolato assieme alla sua lei: ovviamente non le raccoglie, esce ovviamente senza salutare. E’ un vero duro, lui.

Una volta scesi, lei si ferma per accendere una sigaretta, involontariamente proprio sotto il tuo finestrino. Non puoi lasciarti scappare l'occasione di cercare con lo sguardo gli occhi di lui, prima di fissare intensamente lei. Reazione: la abbraccia e la porta via. Esce più fumo dalla testa di lui che dalla sigaretta di lei.

Capacità di abbinare un jeans, un maglione e una camicia, propensione al dialogo e al sorriso, intraprendenza nei rapporti interpersonali, voglia di stare in compagnia, di divertirsi e di far festa. Il tutto condito da una sana dose di intelligenza, malizia e furbizia.

Temere le straniere, temere gli stranieri, ammirare le straniere, ammirare gli stranieri...Mentre rientro nel territorio dell’Unione via Slovenia, realizzo il perché noi italiani (specie gli ometti) siamo cosi intensamente amati e odiati allo stesso tempo: che sia, in entrambi i casi, "manifesta superiorità"?

martedì 17 febbraio 2009

NUMERO TREDICI

IL BUONO, IL BRUTTO E IL CATTIVO. E LO SPIFFERO

Telefonata. - Mà, Sai che domani sera vado al concerto di Ennio Morricone? – Perché è ancora vivo? – Speriamo di si – Perché? – Perché se no chi suona domani? – Dai, pensavo fosse morto…

Pensandoci bene, un concerto di Morricone sta a un ragazzo di Pieve come il caviale sta a un bambino somalo: d’altra Pieve Emanuele è un paese dove già se sai la tabellina del sette dimostri un certo livello culturale, figurarsi Morricone. Anche se poi tutti, almeno una volta nella vita, abbiamo canticchiato o fischiettato “tanaaaanananananananananananaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaatanananananananananananananaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaa”…E tutti lo riconosciamo al volo. Anche a Pieve.

La città era tappezzata di manifesti pubblicitari, sicché i circa ottomila (forse anche di più) biglietti venduti (con prezzi medi attorno ai 30 Euro, non proprio a buon mercato) erano forse prevedibili e rappresentano una cospicuo bottino per gli organizzatori. Le tribune sono gremite, quello che negli stadi è il “prato” ovviamente anche: pochi sparuti gruppi affollano il secondo (ed ultimo) anello, probabilmente la zona più economica. Era forse prevedibile anche questo, considerando che il pubblico che va a sentire Morricone è generalmente colto, benestante e appassionato di musica, per cui interessato a godersi la performance dalla migliore postazione possibile senza lesinare qualche qualche dinaro per ritrovarsi in piccionaia. Tra il primo e il secondo anello c’è una serie di box, delle specie di palchetti, sui quali prende posto il gotha della “Belgrado bene”: c’è chi fuma, chi beve e chi guarda la televisione. Televisione, ma sei sicuro? Forse ci sarà un monitor per godersi il concerto al meglio, con inquadrature che catturano i dettagli… No, ti ho detto televisione e intendevo dire televisione, con tanto di cartoni animati e partite di calcio.

Gli applausi partono più o meno a casaccio, specie all’inizio, quando il chitarrista solista che funge da rompighiaccio ne riceve uno a ogni “girata di pagina”. E anche i tecnici, saliti per preparare gli strumenti per l’orchestra – dopo l’apertura – ne rimediano uno, divenuto discretamente fragoroso una volta capito l’errore.

Circa centocinquanta coristi – serbi, uomini e donne – fanno da cornice superiore ai circa cento musicisti giunti dall’Italia, inclusa la brava cantante solista. Acustica perfetta e musicisti di prim’ordine: anche l’orecchio poco allenato si lascia trasportare dalla musica, anche perché la melodia spesso suona familiare. Chiudendo gli occhi si vedono cavalli, cow boy e Clint Eastwood che entra in un saloon dopo una sparatoria: quando parte il “tanaaaanananananananananananaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaatanananananananananananananaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaa” è pura pelle d’oca, con i ricordi dei soldatini dell’infanzia, che tornano prepotentemente alla ribalta, con in sottofondo il deserto, il sole caldo in un infuocato mezzogiorno, le pistole col colpo in canna, gli stivali con tanto di speroni.

Se per i danesi la peggior punizione è obbligarli a parlare (ancora ricordo i saggi di fine anno delle scuole di danza con un surreale e probabilmente fuori luogo, silenzio che rimbombava nella palestra tra un’esibizione e l’altra), la peggior punizione per i serbi è farli star zitti, anche se sta suonando uno che ha un Oscar sul comodino: immancabile la tipica “pausa caffè” a metà concerto e il tipico “spiffero serbo”, che soffia lungo le gradinate. Che cos’è lo spiffero serbo? Chi ha vissuto in Serbia sa esattamente di cosa sto parlando.

Appena arrivato a Belgrado avevo “la testa” del letto all’angolo tra due finestre: quando la bella stagione cominciava a cedere il passo all’autunno, la bora cominciava a soffiare sulla mia testolina, sicché ho spostato il letto più “a sud”. Pensavo che lo “spiffero” fosse tipico del Rifat Burgevic (lo studentato nel quale vivo), in realtà Federico mi diceva che, appena arrivato nella nuova casa, aveva anche lui il problema dello spiffero, sicché ha chiamato dei tecnici per risolverlo. Bene, due energumeni dall’odore interessante gli sono entrati in casa puntando direttamente il divano: l’infelice idea di offrire un caffè prolungava la seduta di oltre due ore. Dopo dodici ore di lavoro, la finestra si apriva più da destra verso sinistra ma da sinistra verso destra. Federico, tutto contento, andava a dormire, svegliandosi l’indomani con la felice scoperta che lo spiffero, seguendo la teoria darwiniana, si è adattato per cui, al posto di soffiare da sinistra a destra, soffia da destra verso sinistra. La sua donna invece ha installato le doppie finestre per risolvere il problema: ogni tanto però lo spiffero lo sente ancora.

Mai sottovalutare le potenzialità dello spiffero serbo: questa settimana è addirittura riuscito a spostare a lunedì la festa nazionale (curiosamente lo stesso giorno di quella lituana!) in quanto il quindici era domenica. E forse sarà stato proprio lo spiffero serbo a deviare la traiettoria del pallone sul braccio di Adriano, consentendo al pifferaio Rosetti, forse il primo essere umano ipnotizzato da un serpente, di convalidare un gol che manco la Juve dei tempi d’oro: l’ovazione dello sport café saluta il raddoppio di Stankovic, “ma anche” (come direbbe Crozza) e il gol di Pato, sebbene con meno intensità. E chissà che bandiera batte lo spiffero che sposta Pippo in fuorigioco, precisamente sanzionato dall’impeccabile e bravissimo pifferaio Rosetti: il gol, pur essendo irregolare, rimane più bello di quello di Adriano. E se uno stupido spiffero non avesse spostato sul piedone di Julio Cesar il diagonale di Pippo allo scadere…

Maledetti spifferi.

venerdì 13 febbraio 2009

NUMERO DODICI

SPACCATO DI VITA BELGRADESE

Tru tru tru…plin plin plin…tru tru tru…”Ok, ti ho sentito, sono pronto!”…Sono grossomodo le 9.10 / 9.15 quando suona la sveglia del cellulare: la giornata media del tipico borsista italiano a Belgrado comincia. Apro gli occhi (a volte nella speranza di non svegliarmi dove mi sveglio), mi alzo, vado in bagno: non ho molto tempo, sicché inforco un jeans e un maglione a caso e mi fiondo giù, tesserina e “jeton” alla mano, per la colazione (c’è tempo fino alle 9.30).

Un piano di scale, venti metri di passeggiata in cortile (l’aria fresca aiuta nello svegliarsi) e dritto in mensa, nella speranza che ci sia la mitica Eurocrem: in alternativa miele o marmellata. Se proprio il piatto piange, si va “alla serba”, per cui uovo fritto oppure homelette oppure wurstel. Se anche il piano B fallisce, giù di affettato e formaggio. Sostanzialmente con la mia “cartiza” (tessera dello studente, che tra le altre cose da diritto a una serie di sconti) si può prendere una sola delle pietanze finora elencate, cui si possono accompagnare due tazze (te o latte) oppure una tazza e uno yogurt, più pane a volontà. Generalmente sorrido alle inservienti, sbilanciandomi in improbabili conversazioni che il più delle volte si fermano al “dobro jutro” (buon mattino). Alla fine del corridoio, c’è un’inserviente che prende la tessera, “scala una colazione”, riceve il “jeton”, rendendo in cambio le posate e la tessera stessa. Tempo di sedersi, mangiare e riconsegnare il tutto in cucina, ricevendo in cambio della cortesia, il “jeton” di cui sopra (ottenuto in cambio di una cauzione di 200 dinari, pagata alla “blagaina”, la cassa nella quale lavora Zorana, ribattezzata dal mio ex compagno di stanza Jan “the cow” per la sua disponibilità e apertura mentale).

E’ tempo di tornare in stanza, fare una doccia, e conversare con la donna delle pulizie: – Dobro jutro, kako si? – Dobro, hvala. Ti? – Dobro!” (non traduco, penso che ce la puoi fare anche da solo). C’è un solo ragazzo della security che mastica un po’ di inglese: con lui uno sfottà non manca mai, nemmeno quando non si tiene in piedi dal sonno (cosa che gli capita spesso, come a tutti i serbi).

Collezionati armi a bagagli, nel giro di mezz’ora (dopo un’attesa variabile) il filobus numero 40 mi porta dritto all’Istituto Italiano di cultura: entro in mediateca, saluta Ivano, Marina e Branco e mi siedo al computer. Email, Facebook e Corriere, giusto per capire che aria tira in giro, poi le varie newsletters di informazione sui Balcani, infine “varie ed eventuali” fino al pranzo.

Normalmente torno a casa (alla mensa di cui sopra), oppure raggiungo una delle altre mense universitarie: una zuppa, un piatto caldo, una piatto di verdure (freddo), un dolce (alternativa un frutto o un succo) e pane a volontà: la procedura è la stessa del mattino, con la differenza che la fila per accedere al cibo varia dagli zero ai quaranta minuti. Riconsegnati i piatti e riottenuto il gettone, si torna in Istituto, al solito computer in mediateca: se c’è bisogno do una mano in Istituto, se no si naviga fino al tardo pomeriggio, quando vado verso una palestra per sottoporre il test (da bravo un ricercatore) ai pallavolisti belgradesi, categorie juniori e juniorke.

Prima o dopo della palestra (dipende dall’orario) c’è la cena, che ricalca il pranzo, ma senza la zuppa. Una volta a casa, normalmente “carico” i risultati dei test, faccio “due cose” al pc (che ne so, il blog?), magari lavo due panni mano e lentamente mi preparo ad andare a dormire.

Sostanzialmente tre volte al mese ricarico la tessera con dieci colazioni, dieci pranzi e dieci cene (mi costano 1090 dinari, corrispondenti a circa 11 Euro), per ricaricare la tessera si va dal “cow” di cui sopra. La qualità del cibo, benché vari in base al giorno e al ristorante, non è certamente eccelsa, tuttavia è mediamente ragionevole: generalmente mangio sempre tutto, rendendomi conto – certe volte – di mangiare anche il cibo che i serbi lasciano schizzinosamente nel piatto (“la guerra è finita” penso tragicomicamente…).

Hanno un grosso pregio gli studenti serbi: mangiano in fretta. Sicché anche quando le file sono chilometriche si trova sempre agilmente un posto a sedere, anche nelle mense affollate e piccole. Hanno però un difetto: quando le file sono lunghe, lo studente “furbo” si toglie il cappotto “occupando” un posto. Sicché quando hai finalmente hai finalmente il vassoio pieno – magari dopo mezz’ora di coda – tra le mani, sei li che giri per la mensa come un’idiota, tra sedie occupate dai cappotti di chi è appena arrivato in sala e che mangerà tra mezz’ora, se tutto va bene, perché la fila nel frattempo si è allungata a dismisura. Normalmente, da buon italiano, “me ne sbatto” e mi siedo, pronto a sorridere, nel caso, scusandosi giocando la carta dello “straniero”.

Le alternative alla routine ci sono, e spaziano dalle lezioni (una volta a settimana, alla facoltà di scienze politiche: seguo un corso in public administration and policy, tenuto da un docente americano) fino alle incursioni di Federico, il mio amico italiano con il quale spesso mi concedo delle pause a base di caffè e chiacchiere allo stato puro: checché se ne dica, gli italiani hanno bisogno di altri italiani, in certi momenti, per parlare “in italiano” e “all’italiana”. Normalmente Federico è il mio compagno di battaglie durante i weekend quando, con alterne fortune, si cerca svago nella movida belgradese. Lo scorso weekend ho anche provato a inserire nuovamente nella mia routine gli allenamenti: sono andato a correre per due giorni di fila in una pista di fronte allo studentato nel quale vivo. Due sessioni da un’ora cadauna che mi han fatto camminare “come un egiziano” fino a mercoledì.

Oggi è venerdì, Federico è ancora in Italia sicché le prospettive per il weekend non sembrano certo esaltanti, nonostante il derby di domenica: i giorni liberi saranno addirittura tre in quanto la festa nazionale viene in qualche modo spostata a lunedì in quanto cadeva di domenica. Per giunta nevica, per cui niente allenamenti. E l’Istituto Italiano di Cultura è chiuso, per cui niente internet. A casa non ho nemmeno la televisione. Mi sento a mezza via tra il pensionato e lo scandinavo: qualcosa mi dice che domattina sentirò la mancanza del tru tru tru…

lunedì 9 febbraio 2009

NUMERO UNDICI

VENERDI’ TOSCANO: AMSTERDAM, DOSTOJEVSKI E IL VIBRATORE

Gabriele e' un simpatico livornese dall’approccio cosmopolita e dall’aria bonaria: è il presidente di Italiamo, una scuola di italiano per stranieri con una trentina di sedi in Italia e all’estero. Si trova di passaggio a Belgrado, destinazione Ucraina e Romania: il suo intento è quello di permettere agli studenti belgradesi di studiare nelle sue scuole offrendo tariffe vantaggiose e alcune borse di studio. E’ venerdì pomeriggio e su Belgrado splende il sole: in Istituto non c’è molto da fare, sicché ci si ritrova a bere un caffè aspettando la lettrice, con la quale lui e' riuscito a rimediare un appuntamento per presentare la sua attivita'. Una lunga piacevole chiacchierata si conclude con lo scambio dei numeri: “chiamami stasera che magari si esce!”. Alla fine si è usciti, destinazione il celeberrimo splav Amsterdam.

Splav. Ai più questa parola non suggerisce niente, e i più ovviamente hanno ragione, tuttavia questa è una parola capace di mettere i brividi. Specialmente a chi gli splav li ha provati. Perché? Che cazzo sono gli splav? A parte che ci si potrebbe esprimere anche con un po’ di garbo, comunque gli splav sono delle chiatte sul Danubio che fungono da bar e ristoranti in orario diurno per trasformarsi in sale da ballo in orario notturno. Fuori dalla finestra si vede la città riflessa sul fiume, all’interno invece c’è musica dal vivo e anche l’ambientazione pare discretamente curata. Si beve, si danza, si canta, si ride e si scherza, il tutto a prezzi ragionevoli. Ovunque ci sono scollature da capogiro e tettone enormi: vere o false? Ma chissenefrega!

Sembrerebbe un “mondo perfetto” specialmente per noi italiani, che difficilmente riusciamo a mettere in piedi un ragionamento rudimentale anche solo immaginando le forme di Cristina Del Basso. Il fatto è che se non sei né jugoslavo né sordo, la possibilità di godersi una piacevole serata si riduce, in compenso il rischio di frantumarsi i coglioni (chiedo scusa per la scurrilità) è veramente alto. Perché? Perché ovviamente la musica dal vivo spazia dal rock serbo-yugoslavo alla musica leggera serba-yugoslava, dalla musica dance serba-yugoslava fino alle canzonette della tradizione popolare serba-yugoslava, dallo ska serbo-yugoslavo fino al pop serbo-yugoslavo. La risultante è che tutte queste canzoni serbe-yugoslave diventano ben presto tutte dannatamente uguali: la gente, in compenso, le conosce tutte a memoria, se la canta, se la balla, se la ride, si diverte e se le gode. Dopo mezz’ora, non si hanno occhi che per il Culo marmoreo della cubista, ovviamente sproporzionatamente procace sul davanzale.

Giusto per capirci: l’omologo italico degli splav potrebbe idealmente collocarsi a Roma (capitale, come Belgrafo) sul Tevere (il fiume della capitale). Il vantaggio sarebbe quello di avere sullo sfondo Castel Sant’Angelo anziché San Sava (con tutto rispetto, vuoi mettere?). Lo svantaggio? Il doversi sorbire un’orchestra dal vivo che spara uno dopo l’altro “i grandi classici della musica italiana”, con canzoni presi da diverse epoche, diverse regioni e diversi generi, un po’ come accade nei matrimoni ma con l’aggiunta di qualcosa di relativamente più moderno e qualcosa di relativamente più antico. Ricchi e Poveri, Peppino di Capri, i cori degli Alpini, Ligabue, Celentano, Gigi d’Agostino, Raoul Casadei, Nino D’Angelo, i Tazenda, Bruno Lauzi, ‘Nduccio, Negramaro, Raffaella Carrà, Tiziano Ferro, Nilla Pizzi: un po' come la colonna sonora di “ballando con le stelle” ma solo con pezzi italiani. Ecco: il massimo del divertimento serbo sta nelle nostre feste di paese.

Se Alessandro, fedele “scudiere” nella “missione” di Gabriele, ha lasciato gli occhi sulle tette di una moretta niente male, Gabriele sta fumando una sigaretta prima di risalire in macchina: siamo nella vietta di accesso a un parcheggio, giusto a pochi passi dal fiume.

Accelerata, inchiodata, botto: la moto striscia a terra per oltre venti metri lasciando la classica striscia d’olio, il motociclista rovina al suolo, ovviamente senza casco, evitando per poco l’impatto con le auto parcheggiate. Un nugolo di persone, noi compresi, si avvicina al ragazzo che rimane cosciente, nonostante gli sanguini la testa, all’altezza della fronte. Alcune ragazze, visibilmente preoccupate e shockate, fanno allontanare tutti, lo sollevano da terra mettendolo in qualche modo seduto: hanno un cellulare, fanno alcune chiamate, ma non si capisce bene chi stiano chiamando. Un’ambulanza? Ratko, una sorta di “Virgilio serbo” di Gabriele, dice di no: i ragazzi sono studenti di medicina e si conoscono tutti. “Come fai a saperlo?” chiede Alessandro: “Che forse capisca le conversazioni?” replica sorridendo Gabriele. In un minuto il ragazzo si alza e, con un’andatura caracollante ma non troppo considerando il botto, va a sincerarsi delle condizioni della moto.

L’idiota – come direbbe Dostojevskj - non aveva visto la sbarra dell’uscita del parcheggio abbassata, aveva accelerato e poi frenato di colpo, perdendo il controllo della moto. Sfoderando una sensibilità dubbia nei confronti della situazione, noi ci si gira “come girasoli” per salutare il passaggio di tre altre fanciulle che rientrano verso casa. Mentre noi ci si chiede se abbia sbattuto con la testa alla sbarra (la mia risposta è no, la sbarra è pulita: inoltre sarebbe morto!), l’idiota sale in macchina con le aspiranti dottoresse (tra l’altro “molto bone” si osserva dal nostro punto di vista, ma forse messe maluccio per star dietro a un idiota così) che escono dal parcheggio e lo portano via. E anche noi si sale in macchina, anche senza essere aspiranti dottoresse, pronti al rientro a casa.

Due curve ed ecco una pattuglia della polizia. "Secondo me ci fermano": detto fatto, il vibratore che il poliziotto ha in mano si illumina di rosso. Gabriele non si scompone e immediatamente mostra il passaporto: "I am Italian". Ratko chiede se deve tradurre, Gabriele dice di no "E' bene che pensi che siamo stranieri". Ecco che mostra anche patente e carta di circolazione. "Did you drink something?" chiede il poliziotto, "no" ribatte secco Gabriele. Il poliziotto rende i documenti e saluta.

venerdì 6 febbraio 2009

NUMERO DIECI

E RICEVEVA MESSAGGI DI AUGURI IN QUASI TUTTE LE LINGUE DEL MONDO...

Mai avrei pensato di ricevere settantasette messaggi provenienti da 20 nazioni in dieci differenti lingue: ovviamente con la complicita' di Facebook.

Ebbene si, il fantastico mondo di Facebook, a metà strada tra reale e virtuale, rende bizzarro anche il semplice compiere gli anni. I più sinceri messaggi degli amici di lunga data si mescolano con il semplice “auguri” che infondo costa poco a chi si è semplicemente ritrovato in un angolo del monitor un simpatico promemoria. Gli “hope you are doing well” di chi hai incontrato fugacemente in un seminario in Germania si alternano con il comprensibile “in qualunque parte del mondo tu sia” opera di chi fa giustamente fatica a seguire tutti gli spostamenti. Alcuni preferiscono usare l’idioma-madre (azero o macedone che sia), altri ripiegano sull’internazionale inglese: ex colleghi, amanti mancate, semplici conoscenti, compagni di università, di palestra, di bevute. Le rimpatriate “come ai vecchi tempi” ormai non si contano più, sicché anche i compagni delle medie e delle elementari – ritornati improvvisamente alla ribalta - si lanciano in improbabili (sicuramente piacevoli) “facci sapere quando torni in Italia così organizziamo una pizza e ci racconti tutto…”. Mamma, che realisticamente ha perso la speranza, se la ride sotto i baffi.

“Fai compleanno oggi? Come Vlade Divac!” sorride Sasa (per la cronaca, il gigante serbo li compie un giorno dopo): Spomenka sorride, ti guarda e ti chiede quanti anni, mentre ti afferra le orecchie tirandole verso l’alto, gradualmente ma in un colpo solo. “Che ho fatto di male? - ti domandi ricordando i tempi in cui le orecchie si tiravano ai “bambini monelli” – “che non le piacciono i Ferrero Rocher?” Ma quando anche nella stanza adiacente Ivana te le tira nello stesso modo, realizzi che in Serbia si usa così: in Istituto gli inaspettati cioccolatini sembrano essere stati apprezzati all’unanimità. Storia di un compleanno itinerante: due anni fa era Romania, un anno fa Danimarca, questo anno tocca alla Serbia. Chissà l’anno prossimo: ovviamente non oso immaginarlo. E nemmeno mamma.

Diciamo pure che festeggiare la morte che si avvicina non è mai stata una mia priorità. Anzi, il pensiero di invecchiare tradizionalmente gettava un velo di tristezza anche nelle mie personali celebrazioni per il nuovo anno, con il pensiero che volava all’imminente compleanno, nel giro di un mese abbondante. Compiere ventisette anni senza sentirseli addosso, essere orgoglioso per ciò che si è fatto anche se in realtà “si è ancora a zero, come la farina”. Certezze zero, idee tante: voglia ed energia “a mille”, prospettive tangibili minime. Mentre la crisi internazionale dipinge scenari imprevedibili, il tempo passa inesorabile sulla mia povera testolina, che lentamente diviene sempre più calva: da qualche settimana ho anche un’ombra bianca nella barba, all’altezza del mento. Che l’età adulta si stia impossessando di me? Sarebbe ora, direbbe mamma.

Mi scappa una risata bonaria se ripenso al malessere che provai l’indomani della festa di laurea, quando riaccompagnai alla stazione mio cugino Stefano, salito appositamente a Milano, che ripartiva per Roma: ritornando in macchina verso casa, totalmente soprappensiero, piazzai un’inchiodata di fronte a un semaforo rosso assolutamente sfuggito alla mia attenzione. Smarrimento post-laurea, conclusione di una fase della vita, inizio della transizione verso l’età adulta. Questa volta la stazione non era la Centrale, a partire non era mio cugino Stefano, la destinazione non era Roma e le celebrazioni non riguardavano la laurea. Per giunta in sottofondo Mariah Carey cantava “Cheeeenliiiiiiiiiiii”. Una singolare sensazione attraversava la mia testolina. Come porsi di fronte a chi si spara dodici ore di treno per venire a trovarti e festeggiare il tuo compleanno in una città straniera, varcando due confini, per “non lasciarti solo”? Che forse dovresti salire su quel treno? Mamma annuirebbe convinta.

Sinceramente non lo so. Quello che so è che anche a Belgrado la lista delle “mai avrei pensato di…” si è allungata. Per esempio al Hala Sportova (arena dello sport) di Novi Beograd in cui, più o meno casualmente, mi son ritrovato seduto al tavolo segnapunti in un incontro amichevole di volley femminile tra due squadre di serie A (il che significa una categoria sotto la Super Liga serba). O quando, assieme a Federico, siamo entrati allo Sport Café chiedendo di vedere Milan-Bologna: il cameriere, come fosse la cosa piu' normale del mondo, ha sintonizzato appositamente per noi due televisori – in mezzo a una marea di schermi – in corrispondenza del nostro tavolo sulla partita prescelta. E già che ci siamo, aggiungo che mai avrei pensato di gioire per un gol di Beckham (per giunta in maglia rossonera). E mai avrei pensato di perdere due chili in mezz'ora, com'e' accaduto oggi in un incredibilmente caldo mattino belgradese: il filobus numero quaranta diventava infatti sauna per via del riscaldamento "a tavoletta". Con fuori almeno quindici gradi, in un soleggiato mattino di febbraio. Alle Canarie? No, a Belgrado. Cose che capitano. Chi l'avrebbe mai detto?