martedì 16 dicembre 2008

NUMERO QUATTRO

Prendetevi pure qualche giorno di ferie, buttatevi in malattia alla faccia dei fannulloni brunettiani, mettetevi in aspettativa o in maternità oppure licenziatevi. Il post e' veramente lunghissimo, ma e' passato qualche tempo e tante cose sono successe. Ryanair, Parigi, Belgrado, Kosovo…

Lo so a cosa stai pensando. No, non mi hanno imprigionato, non sono stato io: ero sì a Parigi, lo confermo, ma non ho rapinato Harry Wiston. Tranquilla mamma, ho un alibi di ferro: l’European Youth Sport Forum 2008, organizzato da ISCA – International Sport Culture Association – ENGSO – European Non Governamental Sport Organizations – presso la sede del Comitato Olimpico Francese. E cento altri giovinastri – partecipanti e organizzatori provenienti da tutto il continente – possono confermarlo. Una sei-giorni di discussioni, workshop, brainstorming e dibattiti sul Libro Bianco sullo sport, recentemente pubblicato dalla Commissione Europea, si è conclusa due sabati fa. Per una serie di strane coincidenze, il viaggio da Belgrado a Parigi passa attraverso Milano; e il ritardo di un’ora e mezza sulla via del ritorno consente di sorvolare la Belgrdo by night: anche dal cielo salta all’occhio l’iper-illuminata cattedrale di Santa Sava che domina la città e il riflesso dei ponti sul fiume anche dall'alto rimane indubbiamente splendido. Sembra di essere in Sim City (il gioco): le luci fioche illuminano viali e casette, si vedono capannoni industriali, fiumi e ponti, percorsi da automobili e trenini. Gli squadrati palazzoni divengono armonicamente distribuiti allorché si sorvola Novi Beograd, giusto qualche istante prima dell’atterraggio.

Nonostante l’aereo si appoggi morbidamente al suolo, non parte il consueto applauso italico, come accaduto sul volo Ryanair sia all’atterraggio in Francia che a quello di Bergamo. Rimane difficile non spezzare una lancia – ma anche più di una – in favore di Ryanair: aerei spaziosi, puliti ed eleganti con almeno due hostess e uno steward, di cui almeno due parlanti italiano. Prima esperienza completamente positiva: e-ticket economici (54 Euro andata e ritorno, tutto compreso), aeroporti piccoli e ben organizzati, zero confusione e nessun dettaglio lasciato al caso.

L’aeroporto di Beuvais sarà pure un baraccone ma è scientificamente preciso e assolutamente funzionale, “a prova di italiano”: nemmeno il tempo di atterrare che già sei dentro l’aeroporto in fila per comprare il biglietto dell’autobus per Parigi. Tempo di pagare e la tua valigia è sul rullo che ti aspetta. Cinque minuti di attesa e il bus, giusto di fronte all’uscita, arriva e ti porta dritto a Porte Maillot, a una fermata dagli Champs Elisees (dopo un’ora abbondante di viaggio). Certo, a volte i controlli sono stringenti e asfissianti, specie per noi italiani notoriamente pronti ad auspicare regole restrittive ma sempre insofferenti quando queste regole restrittive ci toccano di persona, tuttavia abbordabili.

L’opuscolo Ryanair mostra che l’88% dei voli sono in orario (nonostante entrambi i voli siano partiti in ritardo, l’ora di arrivo era comunque esatta: il che mi fa dedurre che il volo è più corto di quanto dichiarato, tuttavia la certezza di arrivare in un posto nell’orario prestabilito da sola giustifica costi ben più alti dei 54 Euri con i quali ho volato da Bergamo a Parigi: ritengo 164 Euro un prezzo onesto per volare da Belgrado a Milano con JAT, anche se l’aereo era microscopico e il ritardo – piatto forte della casa – è incluso nel biglietto), che le lamentele ogni 1000 passeggeri sono 0.63 e che il 99% delle lamentele trova una risposta in meno di una settimana. Dietro l’88% di voli in orario dichiarato da Ryanair, c’è Airfrance con 82, Lufthansa 81, più staccate Iberia e Aer Lingus (entrambe 78) poi Easyjet 75 e British Airways con 65. Alitalia compare invece nella classifica dei bagagli smarriti, dove occupa un ammirevole quarto posto con solo 19.7 / 1000 (avrei detto molto di più: Ryanair 0,6 / 1000, Lufthansa 15.8, Air France 17.6; peggio di Alitalia solo British Airways 26.5). Volando su aeroporti piccoli effettivamente il rischio di perdere il bagaglio si riduce di molto, mi viene da pensare.

Dopo aver ammirato il panorama offerto dal terzo piano della torre Eiffel, dopo aver passeggiato lungo gli Champs Elysees e dopo aver “girato” sulla ruota in Place de la Concorde, con ancora negli occhi Montmartre e il Sacre Coeur, non si può certo essere entusiasti al pensiero di aspettare il tram numero quattordici che non passa mai, ricordando con un pizzico di amarezza la capillarità della metropolitana parigina: “Ok, passeggiata veloce fino a Kralija Aleksandra: lì potrò scegliere tra sette, quattordici e sei”. Noncurante dei ventisei chili che ti trascini nel trolley ti ritrovi in un attimo in Kralija Aleksandra, ma come al solito non passa nessun tram. Nervosismo: stanchezza parigina, ritardo del volo, bagaglio, voglia di arrivare a casa, freddo. Frustrazione. Un viandante ti dice qualcosa “I don’t understand”. Lui prosegue, una donna dice qualcosa, lui replica, poi ti parla ancora. Nervosismo crescente.

Finché il postulato B entra in funzione: quando meno te lo aspetti Belgrado ti sorprende. Il viandante ti sta chiedendo dove devi andare perché Kralija Aleksandra è bloccata e non passerà nessun tram, per cui devi andare su una parallela e prendere un autobus alternativo. Sorridi e dici ok ma non gli credi. Lui attraversa la strada. Rimani due minuti ma nessun tram all’orizzonte sicché pensi che infondo attraversando non ci perdi niente. E lui è li che ti aspetta per indicarti dov’è la fermata: ti fa strada e sale con te sul bus, lasciandoti ovviamente la precedenza in quanto straniero e bagaglio-munito. Breve chiacchierata fino alla tua fermata: ringrazi e saluti. E lui sorride spontaneo, contento di averti aiutato. Si, Belgrado è anche questo.

Dall’European Youth Sport Forum di Parigi al meeting “Find the energy for cooperation” di Belgrado il passo è breve: al posto di cento giovanotti, stavolta ci sono una trentina di “seniors” presidenti e leader delle associazioni sport per tutti dell’area balcanica. “Ia se zovem Antonio Saccone, ia sam italian, ia govorim srpski: I have been here for a month and half and I just shared with you almost all my Serbian language knowledge, I am here to present the SEEYOU project, I was in the organizing team representing ISCA”. I seniors sorridono interessati e seguono la presentazione che si conclude con strette di mano, pacche sulla spalla, strampalati tentativi di comunicare in una lingua per me tendenzialmente incomprensibile. Molti di loro hanno capito solo che ti chiami Antonio, che sei italiano e che parli serbo. Per la cronaca SEEYOU è un seminario che, a settembre, ha radunato attorno a un tavolo giovani provenienti da ex Jugoslavia e Danimarca con lo scopo di promuovere lo sport come strumento di socializzazione e integrazione in una regione contrassegnata da forti microregionalismi recentemente dilaniata da conflitti interetnici. Lo sport è stato usato come elemento aggregativo: l’eterogeneo SEEYOU team ha partecipato – nel contesto del festival montenegrino “sport per tutti” a diverse competizioni sportive con squadre composte da non più di due giocatori per paese.

Archiviata l’ipotesi Kosovo (dopo un colloquio a Roma e uno telefonico con Pristina, le Nazioni Unite hanno ritenuto di non selezionarmi per un internship annuale retribuito, a partire da febbraio: che poi meno male che non mi hanno presto, se no col nome del blog era un casino…), non mi rimane che proseguire l’esperienza belgradese. Sembra proprio che la mia ricerca sulla percezione dello sport sia destinata ad avere un seguito in quanto l’ISCA continua a ritenerla interessante e un delegato romeno, presente al meeting, mi ha giusto invitato a collaborare con una rivista scientifica dedicata a sport e salute: a Maggio a Costanza ci sarà una conferenza che saluterà l’avvio dei battenti della suddetta rivista. E chissà che non salti fuori la possibilità di insegnare italiano qui in Serbia da qualche parte…Senza considerare che SEEYOU potrebbe avere degli sviluppi…

lunedì 24 novembre 2008

NUMERO TRE

DOMENICA POMERIGGIO

Deambula con fatica, zoppicando poggia il bastone e caracollando sale il primo scalino. Lo forzo continua, la gente si scansa per agevolare il passaggio finché anche il secondo è andato. Nemmeno il tempo di mettersi in piedi appoggiandosi a un palo che un ragazzetto si alza per cedere il posto. Vecchio o vecchia che sia, la procedura è frequente e ben oleata: sui tram e sugli autobus belgradesi il fair play regna sovrano, anche con le donne, specialmente se pargolo-munite. Anche perché non di rado capita che il tram sia costretto a repentine inchiodate capaci di scaraventarti tre o quattro metri in avanti. Ogni volta che si libera un posto, scatta un gioco di sguardi prima dell’appropriamento, normalmente a pannaggio del più anziano/a. Nonostante sia parecchio incasinata sotto ogni punto di vista, Belgrado rimane una città civile ed educata. Anche di notte mentre si cammina per le strade – tendenzialmente illuminate – non si ha paura: forse perché non c’è nessuno che all’improvviso sbuca da dietro un lampione gridando “Cù cù!” (quest’ultima frase l’ho letta su un “pizzino comunista”).

Pensavo proprio questo in una noiosa domenica pomeriggio sul tram numero 7 mentre, senza una meta, scendevo giù lungo Bulevard Kralija Aleksandra, uno stradone ricco di negozi e attività commerciali ma anche di venditori ambulanti, che espongono sui loro bancali ogni genere di prodotti (oltre al tradizionale campionario composto da cd, vestiario, libri, fiori, verdure, frutta e cibo vario, anche inscatolato e di marca, non mancano vari tipi di oggettistica come detersivi, saponi, caramelle, cioccolate, prodotti per la casa, sia “di marca” che senza logo). Nel centro di Belgrado mancano i centri commerciali in compenso abbondano i mercati di quartiere: il tutto ha una sua logica, se si considera che la Serbia è un paese sostanzialmente agricolo, il cui tessuto economico è formato da aziende piccole e piccolissime (discorso valido anche per la distribuzione, evidentemente). Il tram è arrivato al Parlamento, si gira a sinistra: non ho voglia di passeggiare su Kneza Mihailova (strada pedonale dietro il Parlamento da cui si arriva alla fortezza medievale, che domina la città guardando sull’intersezione tra Sava e Danubio) sicché proseguo la corsa.

I negozi di calzature (soprattutto stivali) sono veramente tantissimi ed è curioso notare quanti banchetti di lucida-scarpe si possano trovare lungo i marciapiedi belgradesi: mi dicevano che – oltre che per le macchine – una grossa influenza italiana in Serbia è legata proprio alle calzature. Altra attività che domina incontrastata in Serbia è la “Pekara”, che sforna ogni genere di ghiottoneria – dolce e salata – a tutte le ore: economiche e spesso di buona qualità, il piatto forte è il celeberrimo burek (torta salata ereditata dai turchi a base di formaggio e olio, buona ma pesante), pizze (ovviamente con Ketchup al posto del pomodoro, tuttavia senza ananas), “sarajevske” (morbide focacce a forma di “bastone” con lunghezza e condimenti variabili), cornetti (anche qui dolci e salati), kifle (“pancakes” dolci e salati) e ogni genere di panino. Non si contano nemmeno le “menjacnica”, che si legge all’incirca “megnazniza”, che letteralmente suona tipo “cambio”. D’accordo in centro, per i turisti, d’accordo alla stazione ferroviaria, per i viaggiatori, ma Belgrado è piena zeppa di uffici per il cambio-valuta (ce ne sono almeno due anche nella vietta dove abito, che tutto può essere considerata tranne che turistica): probabilmente le recenti crisi con conseguente inflazione galoppante spingevano continuamente i belgradesi a convertire salari e risparmi – ma anche pochi spiccioli – in Marchi, Dollari o altre “valute forti” (famoso il caso della banconota da 50 dinari che, lungo gli anni ’90 è rimasta intatta nel design, ma è arrivata a includere ben nove zeri arrivando a 5 000 000 000 e celeberrima è anche la banconota da 500000000000dinari, risalente sempre ai ‘90). Poco fa un usciere dello studentato mi indicava i salari dei lavoratori rigorosamente in Euro, indicando che nelle ultime tre settimane il cambio è passato da 84 a 90 dinari: è una bella perdita, sottolineava. Il suo ragionamento sottende che tutt’oggi i belgradesi preferiscono gli Euro sonanti al povero dinaro: sostanzialmente in tutti le ricevitorie per lotto e bingo si cambiano anche le valute.

Mentre il Partizan sta strapazzando l'OFK Belgrado in un derby capitolino (finirà 5-1), il tram ha sorpassato anche la stazione dei treni e il ponte portandomi a Novi Beograd. Il colpo d’occhio è notevolmente diverso: palazzoni e strutture futuristiche, tanto verde e spazi aperti, Novi Beograd sembra più pianeggiante e notevolmente più moderna di Belgrado. Intravedo il Delta City, sicché decido di scendere per dare un’occhiata.

Elegante, curato e pulito, il Delta City non ha niente da invidiare ai nostri moderni centri commerciali: sembra un “piccolo Gum” nel quale non mancano marche grandi e piccole (Tommy Hilfiger, Adidas, Nike, Guess, Replay ma anche Fratelli Rossetti, Zara, Sephora, Calzedonia e via discorrendo). Anche l’Iper Maxi – il Supermercato - sembra molto più fornito dei Maxi ordinari in tutte le categorie merceologiche: la musica mi suona familiare, ma non capisco come mai. Arrivato in cassa rimango piacevolmente sorpreso della velocità della cassiera, nonostante la cliente che mi preceda decida di pagare con carta di credito. Mentre esco mi si accende la lampadina: le canzoni sono italiane ma cantate in serbo! C’è tanta gente che passeggia, entra nei negozi, guarda la merce e spesso acquista nonostante i prezzi siano almeno in linea con i nostri: noto che la sproporzione donne/uomini è meno pronunciata che altrove, un po' perché la maggior parte della clientela è composta da nuclei familiari, e un po' forse perché il potere d'acquisto rimane concentrato nelle mani degli uomini. Mi sorprende di più l’imbattermi, di tanto in tanto, in canzoni italiane nei negozi che il prezzo della BMW Limousine in esposizione indicato in Euro (attorno ai 35.000). Salgo su fino al terzo piano, e anche qui rimango colpito dall’eleganza dell’ambiente: un cinema multisala, diversi fast food, un bowling, una sala-biliardo, diverse sale giochi e uno spazio per i bambini fanno la felicità di grandi e piccini.

Nel frattempo il buio è calato su Belgrado, sicché decido di rientrare a casa: è tempo di recuperare energie, domani è lunedì, c’è già un’altra settimana belgradese che mi aspetta…

giovedì 20 novembre 2008

NUMERO DUE

DENTRO O FUORI?

Tram che sferrazzano, rombi di motori, polvere alzata dalle gomme nelle partenze in salita, colpi di clacson, tamponamenti all'ordine del giorno. Nonostante i poveri poliziotti, pettorina gialla, palettina rossa e fischietto in bocca, si impegnino a fondo per favorire un "normale" flusso di veicoli, talvolta anche indirizzando i perplessi automobilisti sulle “preferenziali” dei tram, verrebbe da dire che "il vero problema di Belgrado...è il traffico". Sembra infatti che le arterie principali che varcano il paese - sia su ruota coperta che ferrata - passino scientificamente dal centro della città intensificando il traffico cittadino, figlio della crescita esponenziale del numero dei veicoli nella capitale serba degli ultimi anni. Le colline non aiutano una normale pianificazione dei trasporti, sicché l’unica linea di metropolitana include solo due stazioni (esatto, ci siamo capiti: va da A a B e viceversa).

Sulle strade belgradesi le "titoiste" Zastava e Yugo recitano la parte del leone, tuttavia non mancano modelli seminuovi e nuovi: in quest'ultima categoria spopolano le Dacia, macchina "low cost" romena affiliata al gruppo Renalult (la poderosa crescita dell’economia romena si fa sentire anche da queste parti). Salta immediatamente all'occhio l'assenza di Trabant e Zhiguly, ancora vive e vegete in tutto l’est europeo, e l'occhio italiano non può non sorprendersi di quanto le Zastava e Yugo ricordino celeberrimi modelli Fiat come 500, 600, la Bianchina di Fantozzi, il 131, 127, il 128...Sulla "nuova punto" Zastava addirittura c'è esplicitamente scritto "licensed by Fiat". Le Yugo e le Zastava costavano poco ma si rompevano sempre”, racconta sorridendo Sasa.

Anche solo osservando il parco auto si arriva a dedurre che infondo il confine con l'Italia (per cui l'occidente )nel passato era sì chiuso, ma infondo anche aperto, al pari del confine con l'Est Europa, sì aperto al contempo anche chiuso.

E “confine” è sicuramente una delle parole-chiave per capire la regione. Un tempo ultimo avamposto d'Europa di fronte all'invasore ottomano, lungo la Serbia corrono anche i confini interni al mondo cristiano che separano l'ortodossia dal cattolicesimo. Sul piano della scrittura, l'adozione simultanea di due alfabeti pone la Serbia a mezza via tra i “cirillici” macedoni e bulgari e tutti gli altri “vicini”-“latini”: parificare due sistemi di scrittura è impossibile, sicché i documenti ufficiali sono redatti in cirillico, con la benedizione della chiesa ortodossa e delle componenti nazionaliste, anche se il latino rimane largamente utilizzato, sulle targhe delle automobili, per rimanere in tema, che qui son tutte targate Bergamo.

E ricco di confini appare oggi anche il panorama Jugoslavo: quello che fu il paese di Tito è oggi diviso in almeno sei stati indipendenti. Senza considerare il confine "virtuale" che separa Serbia e Kosovo, ufficialmente ancora non riconosciuto da Belgrado. Eccetto la Slovenia, tutta la ex Jugoslavia rimane al di là del confine dell'Unione Europea. E qui si materializza un curioso paradosso della storia: se una volta ai serbi toccava difendere l'Europa (nello specifico Vienna) dagli invasori ottomani (nello specifico turchi), oggi i negoziati di adesione all’Unione, preludio all'apertura del confine dell'Europa, sono una realtà per la Turchia e una chimera per la Serbia.

Il Danubio, che oggi separa Novi Beograd da Belgrado, un tempo divideva l'impero austroungarico da quello turco. Ragion per cui, probabilmente, le rotte stradali passano attraverso la capitale, rendendo il traffico discretamente caotico.

E’ difficile raccontare oggi Belgrado ed è difficile raccontare la Serbia. Perché è dura tracciare un confine tra “presente” e “passato”, ma forse ancor più duro è tracciare quello con il futuro. Parole come “Tito” e “Kossovo” sembrano ancora in grado di animare le folle, forse meno numerose di un tempo, mentre l’Europa con le sue istituzioni appare in qualche modo lontana, anche a coloro i quali sembrano poter intravederne i benefici e che si prodigano per promuoverne l’immagine.

I dati macroeconomici di inizio 2008 sembravano anche positivi, in qualche modo, per la Serbia: il Pil cresceva dell’8.2%, l’inflazione scendeva al 6.1%, i salari crescevano “in termini reali” con il tasso di disoccupazione in calo al 19%. Considerando che i servizi compongono il 66% del Pil e che la stragrande maggioranza del mercato è composta da imprese medie, piccole e piccolissime, si può dedurre che Belgrado rappresenta la poderosa crescita (del Pil e dei salari) mentre il 20% dei disoccupati risiede nel resto della Serbia (escludendo la Vojvodina, probabilmente). Più che dei destini della JAT, compagnia di bandiera in via di privatizzazione, viene da chiedersi quanto peserà l’investimento “europeo” Fiat-Iveco sottoscritto con la Zastava, magari in relazione con “l’accordo del gas”, che cede alla Gazprom la Nis Petrol, in cambio di cospicui rassicuranti investimenti nel settore energetico. Ancora una volta a mezza via, ironia della sorte, nel bel mezzo di una crisi internazionale, per giunta.

“…E pensare che volevo scrivere qualcosa di divertente e spensierato” penso, mentre rileggo quanto scritto finora. E immagino le facce dei miei cari amici lettori, che si aspettavano di capire se valga la pena o meno di preparare passaporto, armi e bagagli e di rischiarsela su un volo Jat per vedere…la cattedrale di Santa Sava. Ebbene l’osservazione “spannometrica” per le vie belgradesi sembra denotare una chiara influenza del recente passato sulla composizione demografica della popolazione, non tanto perché manca una generazione maschile (all’incirca tra i trentacinquenni e i quarantacinquenni) quanto perché il genere femminile sembra largamente dominante (come conseguenza).

Altissime anche senza tacchi, spesso con gli stivali ai piedi, per le vie di Belgrado è incredibile notare quante ragazze passeggino tranquille per le strade (anche di notte e non per professione) e come siano poche quelle brutte, anche se rimangono poche anche quelle veramente belle: un esercito di ragazze semplicemente normali, poco inclini ai capricci della moda, carine, sorridenti. e con la faccia pulita, Mi dilungherei oltre ma mi rendo conto di essere andato veramente lungo con questo secondo numero.

Ci sei rimasto male? Dai, non fare così, tanto son sempre qui, non scappo! www.corrieredellaserbia.blogspot.com ! Dillo ai tuoi amici!

mercoledì 5 novembre 2008

NUMERO UNO

BUONGIORNO GODOT

Considerando che la gravidanza degli elefanti dura venti mesi, considerando che gli ebrei ancora stanno aspettando il Messia, considerando che l’Inter è riuscita a rivincere ancora dopo la caduta del muro di Berlino, considerando che Heinstein considerava lo spazio ma soprattutto il tempo come fenomeni relativi, direi che un mese e tre giorni è un attesa ragionevole per il primo numero del Corriere della Serbia.

Un mese abbondante è infatti passato da quando, in un mattino di ottobre, uscivo dalla stazione dei treni di Belgrado con armi e bagagli, pronto ad affrontare la Serbia e le sue insidie.

Belgrado. Comodamente adagiata su morbidi colli, giusto sulla confluenza tra Sava e Danubio, la città è un susseguirsi di palazzi moderni ed edifici d’epoca, catapecchie e grattacieli, di diversi stili; una serie di chiese e chiesette – tra cui spicca senz’altro la cattedrale di Santa Sava - rendono la città decisamente carina. I ponti che la collegano con la moderna Novi Beograd rendono lo scenario notturno veramente stupendo.

In un mese abbondante di permanenza ho scoperto una cosa sola: il “fattore B”. Ogni giorno che trascorri a Belgrado, ogni mattina quando cominci la giornata, non appena apri gli occhi, già sai che c’è qualcosa che non funzionerà, ma a priori non sai mai cosa sia. Generalmente è il tram che si fa attendere per ore o che non passa proprio, ma guai a sottovalutare tutto il resto: Belgrado è una città ricca di insidie, dietro ogni angolo, dietro ogni apparentemente insignificante dettaglio. La pioggia ("buona fortuna" se hai bisogno di un ombrello e sei lontano dal centro), l’orario di chiusura di un ufficio, la mancanza di un anglofono quando serve, un’assurda procedura spiegata nel dettaglio e con novizia di particolari rigorosamente in serbo, sei ore per una lavatrice, l’acqua calda che, in un insulso pomeriggio, decide sorprendentemente di non uscire dalla tua doccia. Generalmente, è sempre quella cosa alla quale non penseresti mai, specialmente in quel preciso momento.

I belgradesi, dal canto loro, si impegnano a fondo per trovare soluzioni alle avversità relative al contesto e ce la mettono tutta per aiutare lo straniero in difficoltà a volte fermano i passanti chiedendo informazioni per conto degli sciagurati forestieri, altre volte suggeriscono perverse strategie per by-passare i problemi, in altri casi risolvono automaticamente i problemi “alla serba” per loro, “alla bersagliera” per noi.

Ma lo straniero è in costante difficoltà. Il vero problema sembra essere uno: le informazioni non sono mai attendibili. Mai. Nemmeno quando autisti e controllori ti suggeriscono mezzi pubblici e fermate. Nemmeno relativamente alle loro linee. Nemmeno addetti degli info-point turistici quando indicano un particolare ufficio. "Do you have an umbrella?", risposta: "No, it's a supermarket here!". Tutto bislacco, ma tutto vero. Va detto però che non sono mai scortesi, sorridono sempre e in modo spontaneo, genuino, sincero. Sono aperti al dialogo e disponibili, come raramente mi era capitato di trovare in precedenza: non vanno mai di fretta, prendono sempre tutto alla leggera e con calma estrema.

A sentir loro, sono sempre impegnati e indaffarati, anche se in realtà è dura capire cosa facciano. Anzi, a guardarli, troppo spesso sembrano degli autentici rimbecilliti. Faccia da pesce lesso, grinta da pianta grassa, riflessi da bradipo: il belgradese medio risponde a qualsiasi domanda con una semi-muggito effettuato a bocca aperta e con la lingua un po’ fuori, a mezza via tra la “o” e la “e” e la “a”. Non parlo ancora così bene serbo da capire che cosa significhi. Tutti mi dicono che la città vive di notte e che “se non hai visto la vita notturna qua, non hai mai visto Belgrado”. E me lo auguro, specialmente per loro, osservandoli di giorno: spero che almeno di notte effettivamente si divertano. Si riempiono la bocca con questi “Chiamami se hai bisogno di aiuto” oppure “ti chiamo la settimana prossima così organizziamo”, ma troppo spesso anticipano il non rispondere alla tua chiamata (nel primo caso) o al non trillare del tuo cellulare (nel secondo).

Normalmente un giornale che si rispetti comincia con un editoriale dove vengono spiegate le ragioni che hanno indotto a fondare una nuova testata e gli obiettivi che ci si prefigge. Il Corriere della Serbia invece comincia a caso. E in ritardo, per giunta. E allora ecco la premessa a una pagina di sproloqui: ho ottenuto una borsa di studio dal governo serbo per essere post-graduated researcher alla facoltà di Scienze Politiche dell’università di Belgrado. Mi occuperò del valore sociale dello sport, con il supporto dell’ISCA – International Sport and Culture Association (l’ong per la quale lavorai in Danimarca).

La seconda domanda, meno banale, riguarda il perché solo ora, se a Milano non mi si vede da un po’. Ebbene sono a Belgrado dal 13 ottobre, ma le prime settimane, tra lavoro, documenti, tram che non passano (più un rientro forzato a casa-Italia per un colloquio lavorativo) sono servite a darmi il benvenuto nella seconda città più grande dei Balcani. Qua serve una tessera per far tutto, ma se il sistema danese ti fa aspettare una vita per ottenere la yellow card, passe par tout scientificamente polifunzionale, il sistema serbo ti fa sudare sette camicie per ottenere un numero difficilmente estimabile di singole tessere monofunzionali dall’efficienza dubbia. Se la prima settimana se n’è andata per collezionare le tessere, la seconda è partita per la fiera del libro, dove ho avuto modo di lavorare e di incontrare anche Tadic, a passeggio tra gli stand. Se la terza ha segnato il mio primo contatto con l’università, la quarta è stato un rientro forzato in Italia per un interessante colloquio. Il tutto è stato condito dalla terribile logistica balcanica di cui sopra, sicché la quinta se n’è andata per la preparazione del primo numero. Cui seguirà il secondo, in meno di cinque settimane: promesso.

Parola di serbo.