NON PUO' PIOVERE PER SEMPRE
Ancora mi ricordo il sole che mi accompagno' in aeroporto al momento di ripartire da Copenhagen, all'incirca un anno fa. Proprio in Danimarca formluai la teoria »dell'ultimo saluto«: se prima di partire splende il sole, significa che la citta' si veste a festa per ringraziarti di tutto, per salutarti e per augurarti buon viaggio. Stavo pensando proprio questo al momento di addormentarmi nella mia ultima notte belgradese, giusto qualche ora prima di essere svegliato dai tuoni e dalla pioggia che, abbondante, scorre lungo le grondaie. Sono le otto. E diluvia.
»E cosa ti aspettavi, un applauso? Hai passato almeno quattro mesi della tua vita a infamare tutto e tutti e questo e' quello che ti meriti...« penso malinconicamente, mentre mi avvio verso la banca e mejaćnica per espletare le ultime formalita' burocratiche. »Non l'ho fatto con cattiveria, e' solo che qu ho avuto tutti i problemi possibili e immaginabili, per di piu' a distanza ravvicinatissima...«. Niente da fare, continua a diluviare.
Sulla strada del ritorno a casa, saranno le nove e venti, la pioggia si affievolisce. Anche Federico deve sbrigare alcune faccende burocratiche sicche' non c'e' molto tempo per le cerimonie: compro i panini, salgo in casa, inforco i bagagli, montiamo in macchina e via verso la stazione. Sono le dieci, al treno manca mezzora e non piove piu': ho tempo di illustrare a Federico la teoria »dell'ultimo saluto«. Concorda, e rilancia: »Ma non vedi che ora c'e' il sole?«. Sono le dieci e venti, mancano venti minuti alla partenza.
Ecco, il clima della mia ultima mattinata belgradese riflette bene il mio percorso: un inizio duro e tempestoso, in cui tutto era difficile e molto era deprecabile, poi il duro adattamento, con annessa accettazione della realta', poi l'adattamento, infine l'inserimento. Ogni esperienza di vita, specialmente all'estero, ha di per se molti aspetti positivi. E al momento posso dirmi contento di aver attraversato tutte le fasi del cosiddetto »cultural shock« del quale molti psicologi parlano: entusiasmo, delusione, rabbia, accanimento, rivalutazione, tolleranza, adattamento, infine piena soddisfazione.
La sfida delle prossime puntate e' raccontare il passaggio dal malessere diffuso fino al benessere generalizzato. Perche' negli ultimi periodi ho conosciuto molta gente, la quale rimane spiazzata di fronte alla lettura degli ultimi post. Cosi come molti abituali lettori rimangono sorpresi alla notizia che – udite udite – ci sono buone possibilita' che da settembre possa nuovamente ritrovarmi a Belgrado.
Ed e' dalla piena soddisfazione di cui sopra chje intendo ripartire. Ma non ora, ho sonno e vado a nanna.
martedì 30 giugno 2009
martedì 19 maggio 2009
NUMERO VENTITRE'
AMARO IN BOCCA. NON E’ JEGERMEISTER NE’ MONTENEGRO
E’ una sensazione che conosco, ci son già passato. Detestare una città, soffrirla, odiarla. E rendersi conto di trovarcisi bene quando ormai è tempo di preparare armi e bagagli. Viaggiare apre la mente e mettere in fila esperienze di vita in giro per l’Europa è simultaneamente entusiasmante e interessante. Dà stimoli, fa crescere, allarga le vedute.
Sinceramente la mia vita non mi dispiace: anche se ovviamente non sono solo rose e fiori. Saltare di città in città dopo un po’ logora. Ogni volta che si ricomincia ci si butta a capofitto in una nuova avventura, in una nuova realtà e gli stimoli certo non mancano: non mancano energie, curiosità e voglia di cominciare. Ma allo stesso tempo logora perché ambientarsi è faticoso e richiede tempo, pazienza e una buona dose di fegato. Lo sforzo ovviamente si monetizza nella prospettiva di lungo periodo, che al momento manca (sto infatti saltando di nazione in nazione, di città in città nel giro di relativamente pochi mesi e non certo in condizioni da pashà).
Mi sento anche un po’ sfortunato, perché devo ammettere che Belgrado è anche divertente, specie di notte. Sfortunato perché da un mese a questa parte mi manca un socio, una spalla, uno che mi segua, uno che abbia voglia di divertirsi con me. Quello che avevo si è praticamente “sposato”. Ogni volta che gli propongo di uscire ha sonno, invita sistematicamente la donna in casa e preparano assieme i dolci e le torte (è molto entusiasta di aver comprato una bilancia per dosare gli ingredienti ed è molto orgoglioso di quanto i dolci gli vengano bene: devo ammettere che ha ragione ed è veramente bravo a cucinare). Non esce mai e quando esce è sonnolento: passata la mezzanotte è coprifuoco, sicché si torna a casa. Alzi la mano chi non ha mai visto una parabola simile su almeno uno dei suoi amici.
Se dovessi partire domani, riporterei la sensazione di non aver vissuto fino in fondo questa città. Di non essermi divertito abbastanza. Di non essermi goduto fino infondo lo Stefan Braun e il Tramvaij (due discobar carini e ben frequentati). Ce l’ho messa tutta, mi sono impegnato, ma tutto sembrava essere contro di me. In tutte le precedenti avventure oltralpe, son sempre riuscito a combinare il lavoro, la produttività, con il divertimento. Cosa impossibile a Belgrado: città ricca di possibilità di svago ma nella quale lavorare è tendenzialmente impossibile. La produttività in un certo senso non è mancata, ma il paradossale prezzo pagato è la cancellazione dello svago dalla mia agenda. Cosa che mi dispiace. Capita, non si può avere tutto.
E capisco anche la differenza tra il mio punto di vista critico sulla città e quello apologeta degli altri italiani. Loro vivono con stipendi italiani, cosa che permette abbastanza agilmente di far la bella vita bypassando in scioltezza le criticità del sistema. Cosa che gli permette anche di coniugare produttività e divertimento. A stipendi italiani si vive in centro, si ha una casa propria, si mangia fuori se si ha voglia, ci si muove in taxi. Con le borse di studio del governo serbo si vive in uno studentato (non esattamente in centro), si mangia nelle mense universitarie e si vive in una camera doppia con uno straniero.
Certamente tu starai pensando che“Lo studentato però è pieno di studenti, il che offre dei vantaggi…”. Si, ma è pieno di studenti serbi. Studenti che arrivano dalla campagna, che faticano a parlare inglese con gli stranieri (a propositoin Serbia gli stranieri sono “strangers” e non “foreigners”) e che non concepiscono l’inglese con accento italiano. Studenti che, viste le origini paesane, non sembra vero di vedere così tanti altri giovani (serbi) tutti assieme. Studenti per cui è probabilmente costoso anche lo stare fuori di casa, il non-lavorare per studiare. Studenti che se non tengono una buona media vengono espulsi dallo studentato (il che rappresenta una tragedia per le loro finanze). Studenti che perciò trovi in aula studio nelle ore più assurde (a mezzanotte di sabato, alle quattro di mattina di domenica). Studenti che non si rendono conto che uno straniero possa studiare in Serbia anche senza parlar serbo (per la mia inchiesta è sufficiente un formulario tradotto!). Studenti che raramente escono dallo studentato, studenti che passano i loro pomeriggi e le loro serate giocando a pallavolo nel cortile, parlando sistematicamente in serbo, ascoltando musica serba, bevendo birra coi serbi. Non per niente siamo in Serbia.
Con tutto il rispetto, cosa avrò mai da spartire io con un ragazzetto di Kraguievac? Di Valjevo? Di Vranje? Di che parlo con questa gente qua? Di Copenhagen? Di Europa? O dei venti anni che separano Belgrado dal resto d’Europa? Se vuoi essere amico dei serbi devi fargli complimenti: loro sono capaci di fare tutto e qualsiasi cosa tu sappia fare loro la sanno fare meglio di te: quando parli non ti ascoltano nemmeno, hanno già capito, per cui ti liquidano relativamente con un rassicurante “nema problema”.
Ma quando senti “nema problema” preparati, il problema ci sarà e si presenterà quando meno te lo aspetti, cioè quando lui dovrà fare ciò che gli hai chiesto, qualsiasi cosa sia. E lui o non ha capito, o fa finta di non capire. In ogni caso non muoverà un dito. Ovviamente la causa di tutti i mali serbi e' esterna, e sono i bombardamenti: sì, hanno causato anche il cambiamento climatico, come mi diceva una cara amica serba.
C’è delusione e anche un po’ di stanchezza in queste righe. Sabato c’era la “Notte dei Musei” qui a Belgrado, una sorta di notte bianca con musei, eventi e mostre in giro per la città. Mentre raggiungevo l’Istituto per un breve turno di supporto, pensavo a cosa fa rimpiangere Bucarest una volta giunti a Belgrado. Un’ora e cinque minuti per coprire 4.5km circa è un tempo interessante: abito vicino a una piazza capolinea di tre linee di filobus, che non sono partiti per più di 35’. Quelli che partivano non raccoglievano i passeggeri ma puntavano dritto al garage. Nessuna spiegazione, nessun avviso, niente di niente. Solo tanti serbi che accettavano passivamente il tutto. Le quattro linee di metropolitana di Bucarest rimangono un sogno per Roma e una remota chimera per Belgrado.
Amen.
E’ una sensazione che conosco, ci son già passato. Detestare una città, soffrirla, odiarla. E rendersi conto di trovarcisi bene quando ormai è tempo di preparare armi e bagagli. Viaggiare apre la mente e mettere in fila esperienze di vita in giro per l’Europa è simultaneamente entusiasmante e interessante. Dà stimoli, fa crescere, allarga le vedute.
Sinceramente la mia vita non mi dispiace: anche se ovviamente non sono solo rose e fiori. Saltare di città in città dopo un po’ logora. Ogni volta che si ricomincia ci si butta a capofitto in una nuova avventura, in una nuova realtà e gli stimoli certo non mancano: non mancano energie, curiosità e voglia di cominciare. Ma allo stesso tempo logora perché ambientarsi è faticoso e richiede tempo, pazienza e una buona dose di fegato. Lo sforzo ovviamente si monetizza nella prospettiva di lungo periodo, che al momento manca (sto infatti saltando di nazione in nazione, di città in città nel giro di relativamente pochi mesi e non certo in condizioni da pashà).
Mi sento anche un po’ sfortunato, perché devo ammettere che Belgrado è anche divertente, specie di notte. Sfortunato perché da un mese a questa parte mi manca un socio, una spalla, uno che mi segua, uno che abbia voglia di divertirsi con me. Quello che avevo si è praticamente “sposato”. Ogni volta che gli propongo di uscire ha sonno, invita sistematicamente la donna in casa e preparano assieme i dolci e le torte (è molto entusiasta di aver comprato una bilancia per dosare gli ingredienti ed è molto orgoglioso di quanto i dolci gli vengano bene: devo ammettere che ha ragione ed è veramente bravo a cucinare). Non esce mai e quando esce è sonnolento: passata la mezzanotte è coprifuoco, sicché si torna a casa. Alzi la mano chi non ha mai visto una parabola simile su almeno uno dei suoi amici.
Se dovessi partire domani, riporterei la sensazione di non aver vissuto fino in fondo questa città. Di non essermi divertito abbastanza. Di non essermi goduto fino infondo lo Stefan Braun e il Tramvaij (due discobar carini e ben frequentati). Ce l’ho messa tutta, mi sono impegnato, ma tutto sembrava essere contro di me. In tutte le precedenti avventure oltralpe, son sempre riuscito a combinare il lavoro, la produttività, con il divertimento. Cosa impossibile a Belgrado: città ricca di possibilità di svago ma nella quale lavorare è tendenzialmente impossibile. La produttività in un certo senso non è mancata, ma il paradossale prezzo pagato è la cancellazione dello svago dalla mia agenda. Cosa che mi dispiace. Capita, non si può avere tutto.
E capisco anche la differenza tra il mio punto di vista critico sulla città e quello apologeta degli altri italiani. Loro vivono con stipendi italiani, cosa che permette abbastanza agilmente di far la bella vita bypassando in scioltezza le criticità del sistema. Cosa che gli permette anche di coniugare produttività e divertimento. A stipendi italiani si vive in centro, si ha una casa propria, si mangia fuori se si ha voglia, ci si muove in taxi. Con le borse di studio del governo serbo si vive in uno studentato (non esattamente in centro), si mangia nelle mense universitarie e si vive in una camera doppia con uno straniero.
Certamente tu starai pensando che“Lo studentato però è pieno di studenti, il che offre dei vantaggi…”. Si, ma è pieno di studenti serbi. Studenti che arrivano dalla campagna, che faticano a parlare inglese con gli stranieri (a propositoin Serbia gli stranieri sono “strangers” e non “foreigners”) e che non concepiscono l’inglese con accento italiano. Studenti che, viste le origini paesane, non sembra vero di vedere così tanti altri giovani (serbi) tutti assieme. Studenti per cui è probabilmente costoso anche lo stare fuori di casa, il non-lavorare per studiare. Studenti che se non tengono una buona media vengono espulsi dallo studentato (il che rappresenta una tragedia per le loro finanze). Studenti che perciò trovi in aula studio nelle ore più assurde (a mezzanotte di sabato, alle quattro di mattina di domenica). Studenti che non si rendono conto che uno straniero possa studiare in Serbia anche senza parlar serbo (per la mia inchiesta è sufficiente un formulario tradotto!). Studenti che raramente escono dallo studentato, studenti che passano i loro pomeriggi e le loro serate giocando a pallavolo nel cortile, parlando sistematicamente in serbo, ascoltando musica serba, bevendo birra coi serbi. Non per niente siamo in Serbia.
Con tutto il rispetto, cosa avrò mai da spartire io con un ragazzetto di Kraguievac? Di Valjevo? Di Vranje? Di che parlo con questa gente qua? Di Copenhagen? Di Europa? O dei venti anni che separano Belgrado dal resto d’Europa? Se vuoi essere amico dei serbi devi fargli complimenti: loro sono capaci di fare tutto e qualsiasi cosa tu sappia fare loro la sanno fare meglio di te: quando parli non ti ascoltano nemmeno, hanno già capito, per cui ti liquidano relativamente con un rassicurante “nema problema”.
Ma quando senti “nema problema” preparati, il problema ci sarà e si presenterà quando meno te lo aspetti, cioè quando lui dovrà fare ciò che gli hai chiesto, qualsiasi cosa sia. E lui o non ha capito, o fa finta di non capire. In ogni caso non muoverà un dito. Ovviamente la causa di tutti i mali serbi e' esterna, e sono i bombardamenti: sì, hanno causato anche il cambiamento climatico, come mi diceva una cara amica serba.
C’è delusione e anche un po’ di stanchezza in queste righe. Sabato c’era la “Notte dei Musei” qui a Belgrado, una sorta di notte bianca con musei, eventi e mostre in giro per la città. Mentre raggiungevo l’Istituto per un breve turno di supporto, pensavo a cosa fa rimpiangere Bucarest una volta giunti a Belgrado. Un’ora e cinque minuti per coprire 4.5km circa è un tempo interessante: abito vicino a una piazza capolinea di tre linee di filobus, che non sono partiti per più di 35’. Quelli che partivano non raccoglievano i passeggeri ma puntavano dritto al garage. Nessuna spiegazione, nessun avviso, niente di niente. Solo tanti serbi che accettavano passivamente il tutto. Le quattro linee di metropolitana di Bucarest rimangono un sogno per Roma e una remota chimera per Belgrado.
Amen.
martedì 12 maggio 2009
NUMERO VENTIDUE
BUCAREST, BELGRADO, KIEV E IL SILLOGISMO ARISTOTELICO
Circa trent’anni, barba incolta, sorriso spontaneo e battuta pronta: Marco vive a Kiev, ma è venuto a Belgrado in vacanza. Noi tutti pendiamo dalle sue labbra, ponendogli migliaia di domande sulla vita in Ucraina, sugli ucraini e soprattutto ovviamente sulle ucraine. E lui non riesce a sputar fuori una sola cosa positiva né della città né delle sue genti Ha vissuto a Belgrado per nove mesi, gli manca e la rimpiange.
Io invece non avrei mai avrei pensato di rimpiangere Bucarest. Poi sono venuto a Belgrado.
Pensa Kiev, diranno i miei lettori piu' arguti: “Bucarest sta a Belgrado come Belgrado sta a Kiev quindi Bucarest sta a Kiev…”
No, ragazzi, no: il sillogismo aristotelico è inverosimile. La domanda che mi faccio è piuttosto un’altra: riuscirò a rimpiangere anche la Serbia? E cosa rimpiangere di Belgrado? Il sistema dei mezzi di trasporto? L’umiltà? L’ “apertura mentale”? L’efficienza cronica?
E ragiono su quanto siano influenti le aspettative nelle esperienze all’estero (ma forse nelle esperienze in genere). E mi tornano in mente le parole di Marco: “Dopo aver vissuto a Belgrado, sono andato in Albania, ma nemmeno a Tirana, a Scutari, mica a Los Angeles, prima di andare a Kiev: pensare che ho fatto di tutto per andarci, stravedevo per l’Ucraina. Quindici giorni fa ho deciso che Kiev non fa per me e che gli ucraini non mi piacciono, mentre prima mi dicevo “boh, forse sono io…”. Sono chiusi, maleducati ed è impossibile farci amicizia: tutti gli stranieri che conosco non si trovano bene e non hanno amici ucraini, anche quelli che vivono lì da un pezzo e che si sono anche sposati…”.
In Romania imparai che sarebbe bene non farsi troppe aspettative prima di partire per l’estero: arrivai in Lituania senza aspettative e fu un trionfo, arrivai a Bucarest carico di aspettative e furono alti e bassi, arrivai a Copenhagen con qualche aspettativa e rimasi sorpreso del vedere deluse le aspettative ma nel trovare sorprese laddove le aspettative mancavano. Prima di partire per la Serbia sapevo benissimo che bisogna girare alla larga dalle aspettative, ma probabilmente lo sapeva anche Marco prima di partire per Kiev, ma ci siamo cascati entrambi. Facile a dirsi ma non a farsi, mi viene da pensare.
E ragiono infatti sul pre-partenza serbo, ripensando ai dieci contatti che avevo in Serbia: tutti ragazzi conosciuti in giro per seminari in Europa, ragazzi con i quali ci si ritrovava a far casino assieme, alla faccia degli smorti scandinavi e degli ubriaconi tedeschi. Ragazzi con il comune spirito “sud europeo”, con i quali ci si trovava bene. Ragazzi che ti avevano dipinto Belgrado come una città capace di vivere la vita e di divertirsi, una città che non dorme mai, una città festaiola, ricca di vita notturna. Una città nella quale ti troverai benissimo, ragazzi con i quali mi ero lasciato con un “dai, ci vediamo a Belgrado…”.
Ragazzi che non si son piu' visti, ragazzi che sono spariti, ragazzi che non hanno mai chiamato, ragazzi che se li hai chiamati non ti hanno risposto.
Ragazzi che evidentemente “hanno sempre da fare”: ma che cazzo avranno mai da fare i
belgradesi se a Belgrado non funziona niente? Che fanno i belgradesi? Niente. Anzi, una cosa la fanno: bevono il caffè (le piante si annaffiano con l’acqua, i belgradesi bevono il caffé). Belgrado è una città basata sul caffè (e allora mi chiedo se anche le piante vengano annaffiate col caffé). Ragazzi che evidentemente bevono caffè, ma a cui evidentemente non importa di berlo con te (tanto in qualche modo te la caverai). Secondo me non è la cattiveria il problema, il problema è evidentemente ai simpatici serbi pesa anche scrivere un sms, un messaggio su Facebook o fare una telefonata di invito. Diciamo che se non hai voglia di fare un cazzo, Belgrado è la città che fa per te e i belgradesi ti piaceranno.
Domenica in un parco cittadino scoprivo il modo in cui i serbi vanno sui roller-blade: una volta indossati, si aggrappano al motorino guidato da un amico e – respirando a pieni polmoni il gas di scarico – se la viaggiano sulla pista ciclabile.
Non è esattamente salutare ma vuoi mettere l’energia che sprecherebbero per pattinare?
Circa trent’anni, barba incolta, sorriso spontaneo e battuta pronta: Marco vive a Kiev, ma è venuto a Belgrado in vacanza. Noi tutti pendiamo dalle sue labbra, ponendogli migliaia di domande sulla vita in Ucraina, sugli ucraini e soprattutto ovviamente sulle ucraine. E lui non riesce a sputar fuori una sola cosa positiva né della città né delle sue genti Ha vissuto a Belgrado per nove mesi, gli manca e la rimpiange.
Io invece non avrei mai avrei pensato di rimpiangere Bucarest. Poi sono venuto a Belgrado.
Pensa Kiev, diranno i miei lettori piu' arguti: “Bucarest sta a Belgrado come Belgrado sta a Kiev quindi Bucarest sta a Kiev…”
No, ragazzi, no: il sillogismo aristotelico è inverosimile. La domanda che mi faccio è piuttosto un’altra: riuscirò a rimpiangere anche la Serbia? E cosa rimpiangere di Belgrado? Il sistema dei mezzi di trasporto? L’umiltà? L’ “apertura mentale”? L’efficienza cronica?
E ragiono su quanto siano influenti le aspettative nelle esperienze all’estero (ma forse nelle esperienze in genere). E mi tornano in mente le parole di Marco: “Dopo aver vissuto a Belgrado, sono andato in Albania, ma nemmeno a Tirana, a Scutari, mica a Los Angeles, prima di andare a Kiev: pensare che ho fatto di tutto per andarci, stravedevo per l’Ucraina. Quindici giorni fa ho deciso che Kiev non fa per me e che gli ucraini non mi piacciono, mentre prima mi dicevo “boh, forse sono io…”. Sono chiusi, maleducati ed è impossibile farci amicizia: tutti gli stranieri che conosco non si trovano bene e non hanno amici ucraini, anche quelli che vivono lì da un pezzo e che si sono anche sposati…”.
In Romania imparai che sarebbe bene non farsi troppe aspettative prima di partire per l’estero: arrivai in Lituania senza aspettative e fu un trionfo, arrivai a Bucarest carico di aspettative e furono alti e bassi, arrivai a Copenhagen con qualche aspettativa e rimasi sorpreso del vedere deluse le aspettative ma nel trovare sorprese laddove le aspettative mancavano. Prima di partire per la Serbia sapevo benissimo che bisogna girare alla larga dalle aspettative, ma probabilmente lo sapeva anche Marco prima di partire per Kiev, ma ci siamo cascati entrambi. Facile a dirsi ma non a farsi, mi viene da pensare.
E ragiono infatti sul pre-partenza serbo, ripensando ai dieci contatti che avevo in Serbia: tutti ragazzi conosciuti in giro per seminari in Europa, ragazzi con i quali ci si ritrovava a far casino assieme, alla faccia degli smorti scandinavi e degli ubriaconi tedeschi. Ragazzi con il comune spirito “sud europeo”, con i quali ci si trovava bene. Ragazzi che ti avevano dipinto Belgrado come una città capace di vivere la vita e di divertirsi, una città che non dorme mai, una città festaiola, ricca di vita notturna. Una città nella quale ti troverai benissimo, ragazzi con i quali mi ero lasciato con un “dai, ci vediamo a Belgrado…”.
Ragazzi che non si son piu' visti, ragazzi che sono spariti, ragazzi che non hanno mai chiamato, ragazzi che se li hai chiamati non ti hanno risposto.
Ragazzi che evidentemente “hanno sempre da fare”: ma che cazzo avranno mai da fare i
belgradesi se a Belgrado non funziona niente? Che fanno i belgradesi? Niente. Anzi, una cosa la fanno: bevono il caffè (le piante si annaffiano con l’acqua, i belgradesi bevono il caffé). Belgrado è una città basata sul caffè (e allora mi chiedo se anche le piante vengano annaffiate col caffé). Ragazzi che evidentemente bevono caffè, ma a cui evidentemente non importa di berlo con te (tanto in qualche modo te la caverai). Secondo me non è la cattiveria il problema, il problema è evidentemente ai simpatici serbi pesa anche scrivere un sms, un messaggio su Facebook o fare una telefonata di invito. Diciamo che se non hai voglia di fare un cazzo, Belgrado è la città che fa per te e i belgradesi ti piaceranno.
Domenica in un parco cittadino scoprivo il modo in cui i serbi vanno sui roller-blade: una volta indossati, si aggrappano al motorino guidato da un amico e – respirando a pieni polmoni il gas di scarico – se la viaggiano sulla pista ciclabile.
Non è esattamente salutare ma vuoi mettere l’energia che sprecherebbero per pattinare?
giovedì 30 aprile 2009
NUMERO VENTUNO
COME DICEVA LUBRANO…
Quando si capiscono le regole che governano la metropolitana, si capisce molto di un popolo e di una nazione. Era così a San Pietroburgo, dove tutto il vagone rideva in faccia alla svampita turista italiana che realizzava di esser stata derubata nel momento in cui saliva sul treno. Era così a Copenhagen dove la regola del lasciar scendere prima di salire non viene intaccata nemmeno da passeggini e biciclette, spostati con disciplina dagli schivi passeggeri che scelgono il posto più isolato e lontano dalle altre anime vive.
E’ così anche a Milano dove i locali camminano con celeberrima rapidità togliendo le scarpe ai neofiti prima di urtare sul solito gruppo che si perde di fronte allo svincolo tra Molino Dorino e Sesto, impallano il traffico di chi proviene dalla gialla. La metropolitana di Bucarest è invece uno spasso. Nemmeno il tempo di annunciare la fermata, che i passeggeri in discesa già fanno la danza maori: sanno che li attende una battaglia per scendere e non sono disposti a lesinare nemmeno un grammo di energia per centrare l’obiettivo. Dall’altra parte il rumore del treno che arriva è percepito come il suono del corno che precede la battaglia: i passeggeri in attesa sanno che li aspetterà una battaglia e non sono disposti a lesinare nemmeno un grammo di energia per centrare l’obiettivo. Il risultato? Non appena le porte si aprono e' guerra, in quanto gli obiettivi degli uni e degli altri collidono. Inutile dire che vale tutto, contro il principio della fisica che direbbe che se uno spazio è occupato da un corpo, non può essere occupato simultaneamente da un altro corpo.
Ma la fisica a volte non funziona. E qui siamo – manco a dirlo – a Belgrado. E’ difficile spiegare come sia possibile, ma certe volte, dopo dieci minuti buoni di attesa, la banchina è gremita. Caracollando lemme lemme, ecco un tram che arriva laggiù infondo. E’ pieno di gente, ovviamente, perché i passeggeri in attesa si sono accumulati. Ne scendono due, ne salgono diciannove: non so dove si mettano, forse c’è un doppio fondo. Ma alla fermata dopo, come per magia, ne scenderanno ancora tre e ne saliranno ventisette, e non capisci nemmeno da sopra dove finisca la gente. A Belgrado i mezzi pubblici – ammesso che passino – si fermano obbligatoriamente a tutte le “stazioni” (stanize, secondo la favella locale), a tutte le ore in tutte le condizioni atmosferiche. L’idea è quella di consentire ai passeggeri di scendere con calma ed evitando a chi aspetta di sbracciarsi alla fermata per richiamare l’attenzione del conducente. Ovviamente non e' necessario suonare il campanello per richiedere la fermata.
Ma non va sempre così liscia. Perché un po’ come le vecchiette di Milano, che si preparano dieci fermate prima per non rimanere ingabolate nel traffico umano, anche a Belgrado capita sempre di imbattersi in una stuola di imbecilli che si ferma giusto davanti all’apertura delle porte, con il risultato di produrre ingorghi e congestioni incredibili anche con il mezzo praticamente vuoto. Il sogno del passeggero medio belgradese in discesa, di fronte alle porte che si aprono, è quello di vedere due ali di passeggeri in salita che si allargano e di trovare un corridoio centrale per uscire e allontanarsi. Diciamo che sogna di essere Pirlo che sta per calciare un rigore a porta vuota.
E invece sa che all’apertura delle porte si sentirà un po’ come Pirlo ma quando batte una punizione da limite: troverà infatti a un metro dalle porte, una fitta barriera umana composta da sciure, vecchi, giovani e meno giovani, disposti uno accanto all’altro lunga praticamente tuta la lunghezza del tram. La conseguenza è che chi vuol scendere, una volta fatto l’ultimo scalino, non mette il piede a terra ma sulla caviglia del Pirlo prima, che nel frattempo si è infranto sulla barriera, che si e' aperta. Chi è in barriera invece, manco avesse sentito il fischio dell’arbitro, si scaraventa incontro al Pirlo di turno e agguanta il corrimano per salire, in barba ai cinquanta passeggeri che tentano di scendere. Anche qui è baruffa, tuttavia va detto che il tutto si svolge pacificamente: normalmente nessuno si fa male e nessuno si lamenta più di tanto.
Perché non ho descritto la metropolitana belgradese come ho fatto per le altre città? Semplice, perché a Belgrado l’unica linea metropolitana – lungimirante e capillare - collega A a B, con un’utilità difficilmente quantificabile. Ovviamente non l’ho mai presa, anche se passo praticamente tutti i giorni attraverso il sottopassaggio di una delle due fermate per attraversare un grosso incrocio.
E’ molto nuova e moderna, con indicazioni precise e bilingui. Ana la descrive così: “E’ l’ennesima grande opera di Milosevic, costosa, sfarzosa e inutile: l’unica che l’ha usata è Ceca per un video”. Ceca (per la cronaca si legge Zeza), tanto bella quanto artificiale, è una cantante dal passato vagamente burrascoso (è la ex moglie di Arkan) e con qualche problemino con la giustizia, che di tanto in tanto riaffiora. Non è impossibile pensare che la sfarzosa fermata di Vukov Spomenik (a dispetto del nome poco amichevole, è in realtà un parco grazioso che ospita una residenza universitaria e due statue, una di Vuk Karadizic, il quale riformo' l'alfabeto cirillico introducendo la variante serba, e una di Cirillo e Metodio, inventori dell’alfabeto glagolitico, il piu' antico alfabeto slavo conosciuto).
E ripensando alle curve di Ceca, la domanda sorge spontanea: ma perché i serbi, quando incrociano una bella serba, non si girano mai a guardarle il culo?
Quando si capiscono le regole che governano la metropolitana, si capisce molto di un popolo e di una nazione. Era così a San Pietroburgo, dove tutto il vagone rideva in faccia alla svampita turista italiana che realizzava di esser stata derubata nel momento in cui saliva sul treno. Era così a Copenhagen dove la regola del lasciar scendere prima di salire non viene intaccata nemmeno da passeggini e biciclette, spostati con disciplina dagli schivi passeggeri che scelgono il posto più isolato e lontano dalle altre anime vive.
E’ così anche a Milano dove i locali camminano con celeberrima rapidità togliendo le scarpe ai neofiti prima di urtare sul solito gruppo che si perde di fronte allo svincolo tra Molino Dorino e Sesto, impallano il traffico di chi proviene dalla gialla. La metropolitana di Bucarest è invece uno spasso. Nemmeno il tempo di annunciare la fermata, che i passeggeri in discesa già fanno la danza maori: sanno che li attende una battaglia per scendere e non sono disposti a lesinare nemmeno un grammo di energia per centrare l’obiettivo. Dall’altra parte il rumore del treno che arriva è percepito come il suono del corno che precede la battaglia: i passeggeri in attesa sanno che li aspetterà una battaglia e non sono disposti a lesinare nemmeno un grammo di energia per centrare l’obiettivo. Il risultato? Non appena le porte si aprono e' guerra, in quanto gli obiettivi degli uni e degli altri collidono. Inutile dire che vale tutto, contro il principio della fisica che direbbe che se uno spazio è occupato da un corpo, non può essere occupato simultaneamente da un altro corpo.
Ma la fisica a volte non funziona. E qui siamo – manco a dirlo – a Belgrado. E’ difficile spiegare come sia possibile, ma certe volte, dopo dieci minuti buoni di attesa, la banchina è gremita. Caracollando lemme lemme, ecco un tram che arriva laggiù infondo. E’ pieno di gente, ovviamente, perché i passeggeri in attesa si sono accumulati. Ne scendono due, ne salgono diciannove: non so dove si mettano, forse c’è un doppio fondo. Ma alla fermata dopo, come per magia, ne scenderanno ancora tre e ne saliranno ventisette, e non capisci nemmeno da sopra dove finisca la gente. A Belgrado i mezzi pubblici – ammesso che passino – si fermano obbligatoriamente a tutte le “stazioni” (stanize, secondo la favella locale), a tutte le ore in tutte le condizioni atmosferiche. L’idea è quella di consentire ai passeggeri di scendere con calma ed evitando a chi aspetta di sbracciarsi alla fermata per richiamare l’attenzione del conducente. Ovviamente non e' necessario suonare il campanello per richiedere la fermata.
Ma non va sempre così liscia. Perché un po’ come le vecchiette di Milano, che si preparano dieci fermate prima per non rimanere ingabolate nel traffico umano, anche a Belgrado capita sempre di imbattersi in una stuola di imbecilli che si ferma giusto davanti all’apertura delle porte, con il risultato di produrre ingorghi e congestioni incredibili anche con il mezzo praticamente vuoto. Il sogno del passeggero medio belgradese in discesa, di fronte alle porte che si aprono, è quello di vedere due ali di passeggeri in salita che si allargano e di trovare un corridoio centrale per uscire e allontanarsi. Diciamo che sogna di essere Pirlo che sta per calciare un rigore a porta vuota.
E invece sa che all’apertura delle porte si sentirà un po’ come Pirlo ma quando batte una punizione da limite: troverà infatti a un metro dalle porte, una fitta barriera umana composta da sciure, vecchi, giovani e meno giovani, disposti uno accanto all’altro lunga praticamente tuta la lunghezza del tram. La conseguenza è che chi vuol scendere, una volta fatto l’ultimo scalino, non mette il piede a terra ma sulla caviglia del Pirlo prima, che nel frattempo si è infranto sulla barriera, che si e' aperta. Chi è in barriera invece, manco avesse sentito il fischio dell’arbitro, si scaraventa incontro al Pirlo di turno e agguanta il corrimano per salire, in barba ai cinquanta passeggeri che tentano di scendere. Anche qui è baruffa, tuttavia va detto che il tutto si svolge pacificamente: normalmente nessuno si fa male e nessuno si lamenta più di tanto.
Perché non ho descritto la metropolitana belgradese come ho fatto per le altre città? Semplice, perché a Belgrado l’unica linea metropolitana – lungimirante e capillare - collega A a B, con un’utilità difficilmente quantificabile. Ovviamente non l’ho mai presa, anche se passo praticamente tutti i giorni attraverso il sottopassaggio di una delle due fermate per attraversare un grosso incrocio.
E’ molto nuova e moderna, con indicazioni precise e bilingui. Ana la descrive così: “E’ l’ennesima grande opera di Milosevic, costosa, sfarzosa e inutile: l’unica che l’ha usata è Ceca per un video”. Ceca (per la cronaca si legge Zeza), tanto bella quanto artificiale, è una cantante dal passato vagamente burrascoso (è la ex moglie di Arkan) e con qualche problemino con la giustizia, che di tanto in tanto riaffiora. Non è impossibile pensare che la sfarzosa fermata di Vukov Spomenik (a dispetto del nome poco amichevole, è in realtà un parco grazioso che ospita una residenza universitaria e due statue, una di Vuk Karadizic, il quale riformo' l'alfabeto cirillico introducendo la variante serba, e una di Cirillo e Metodio, inventori dell’alfabeto glagolitico, il piu' antico alfabeto slavo conosciuto).
E ripensando alle curve di Ceca, la domanda sorge spontanea: ma perché i serbi, quando incrociano una bella serba, non si girano mai a guardarle il culo?
lunedì 27 aprile 2009
NUMERO VENTI
DAL CUORE SERBO ALLA CAVIGLIA ITALICA
“Milosevic? Avrebbero dovuto dargli il Nobel per l’ecologia: durante le sanzioni si è bloccata tutta l’economia, fabbriche comprese, sicché i fiumi son tornati a essere assolutamente puliti”: sorride il padrone di casa, indicando il fiume che, beato e tranquillo, scorre alle sue spalle. Siamo a pochi passi da Ada Ciganlija, ospiti a pranzo dalla famiglia di Lana e Vanda, due studentesse di italiano, che possiede un piccolo splav sulla Sava.
Nemmeno il tempo di arrivare e consegnare un mazzo di fiori alla signora, che ci si ritrova a brindare con un bicchiere di rakia: da queste parti la grappa è un aperitivo, per cui va gustata a stomaco vuoto per godersi il pasto. Tempo di dar un po’ di briciole di pane in cibo alle papere, ai cigni e alle anatre selvatiche che accorrono numerosi, che il cibo è pronto. Benché tutti avessero messo le mani avanti con un “non è facile cucinare la pasta agli italiani”, in realtà gli spaghetti al ragù, per quanto l’abbinamento possa sembrare bizzarro, sono decisamente buoni: “scusateci, ma noi li condiamo con il ketchup e li mangiamo assieme all’insalata” dicono sorridendo i nostri commensali. E dopo l’insalata – come per magia – arrivano una torta di formaggio, salame bulgaro e montenegrino, petti di pollo, uova sode, prima della torta gelato, guarnita con gelato e marmellata. Il tutto in dosi più che abbondanti.
Ovviamente si parla molto di quanto sia splendida l’Italia, del talento di Carosone; poi ci raccontano anche del loro ristorante e di quando – durante le riprese di Quo Vadis – Massimo Ranieri e Sofia Loren cenavano da loro. E di quanto Ranieri apprezzasse sia la discrezione del ristoratore (che tenne lontani giornalisti e curiosi) che la palacinka (pancakes o crepe), ribattezzata da Ranieri “paladieci!“. “Non dovevate disturbarvi così tanto” dice Federico ai genitori, ma la mamma, con aria bonaria, ci risponde che “le nostre figlie ci hanno parlato bene di voi, hanno detto che siete due ragazzi bravi e colti, per cui per noi è un piacere…”. “Cultura? Non basta lavorare all’Istituto di Cultura per essere uomini di cultura!” irrompe il padre: risate generali. Io e Federico sottoscriviamo e condividiamo.
E mentre il padre torna a lavorare sullo splav (che è nuovo, ma da ristrutturare), Vanda e Lana lavano i piatti mentre la madre porge a me e a Federico due sdraio, un tavolino con dolci fatti in casa e due caffè turchi. Chiediamo se serve aiuto, ma ci intimano di rimanere seduti a goderci il sole manco fossimo autentici belgradesi. Ci guardiamo increduli pensando a quanto sia dura la vita degli insegnanti di italiano…a Belgrado! Sorridiamo pensando a chi passa le sue giornate archiviando fatture, facendo fotocopie e incrociando tabelle di excel, magari in un umido ufficio italiano. La musica tranquilla in sottofondo, il riflesso del sole sul lago, la pace regna sovrana. Al momento dei saluti arriva l’invito per la replica: “passate pure a trovarci, noi siamo spesso qua: la prossima volta portate il costume, abbiamo una barca e andiamo a fare un bagno al largo!”.
Pensare che avrei voluto scrivere un post sulla supponenza con la quale i serbi ridono quando gli si dice che “noi si va a Zagabria per il weekend”: “ma che ci vai a fare? E’ piccola, noiosa, non succede niente!” e poi i croati parlano sempre con la “gl” dicendo Mgliiiiieco e non Mleco (che poi significa latte). O della leggerezza con le quali i serbi ridono ogni volta che vengono nominate “Romania” e / o “Bucarest” (da queste parti non è chiaro che il mercato romeno, parte dell'Unione Europea, e' circa il quadruplo – sicuramente più del triplo – di quello serbo e che Bucarest, città con quattro linee di metropolitana, è circa il doppio di Belgrado.
Ma non ci sono riuscito. La Serbia è davvero un paese strano, senza mezze misure. Un paese immobile, statico, lento, rilassato, conservatore, contadino, provinciale. Ma anche un paese popolato da gente semplice, genuina e dal cuore grande e buono. Un paese relativamente povero ma al contempo sicuro e privo di criminalità. Un paese che vive e lascia vivere. Un paese che trova sempre una soluzione e non perde occasione per sorridere, per godersi la vita, per gioire delle piccole cose. Un paese pieno di giovani donzelle che, in tempo di primavera, complice il caldo, diventa difficile da gestire.
Un paese nel quale il nostro eroe ha addirittura ricominciato a fare sport, dopo la borsite degli scorsi mesi. Un paese che sabato sera al Plastic (come definirlo…Discoteca? Carnaio? Senza musica serba? Ci piace, anche se il celeberrimo omologo milanese sembra abbastanza diverso per impostazione e struttura) ho incontrato tre studentesse del gruppo principianti (sono incredibilmente riuscite ad azzardare una presentazione più che decente al Federico, colpito soprattutto dall’amica delle due). Un paese nel quale si pensa polemicamente che d'accordo che con i se e con i ma non si scrive la storia, tuttavia senza quel gol di mani di Adriano e senza la rapina di Siena...
“Milosevic? Avrebbero dovuto dargli il Nobel per l’ecologia: durante le sanzioni si è bloccata tutta l’economia, fabbriche comprese, sicché i fiumi son tornati a essere assolutamente puliti”: sorride il padrone di casa, indicando il fiume che, beato e tranquillo, scorre alle sue spalle. Siamo a pochi passi da Ada Ciganlija, ospiti a pranzo dalla famiglia di Lana e Vanda, due studentesse di italiano, che possiede un piccolo splav sulla Sava.
Nemmeno il tempo di arrivare e consegnare un mazzo di fiori alla signora, che ci si ritrova a brindare con un bicchiere di rakia: da queste parti la grappa è un aperitivo, per cui va gustata a stomaco vuoto per godersi il pasto. Tempo di dar un po’ di briciole di pane in cibo alle papere, ai cigni e alle anatre selvatiche che accorrono numerosi, che il cibo è pronto. Benché tutti avessero messo le mani avanti con un “non è facile cucinare la pasta agli italiani”, in realtà gli spaghetti al ragù, per quanto l’abbinamento possa sembrare bizzarro, sono decisamente buoni: “scusateci, ma noi li condiamo con il ketchup e li mangiamo assieme all’insalata” dicono sorridendo i nostri commensali. E dopo l’insalata – come per magia – arrivano una torta di formaggio, salame bulgaro e montenegrino, petti di pollo, uova sode, prima della torta gelato, guarnita con gelato e marmellata. Il tutto in dosi più che abbondanti.
Ovviamente si parla molto di quanto sia splendida l’Italia, del talento di Carosone; poi ci raccontano anche del loro ristorante e di quando – durante le riprese di Quo Vadis – Massimo Ranieri e Sofia Loren cenavano da loro. E di quanto Ranieri apprezzasse sia la discrezione del ristoratore (che tenne lontani giornalisti e curiosi) che la palacinka (pancakes o crepe), ribattezzata da Ranieri “paladieci!“. “Non dovevate disturbarvi così tanto” dice Federico ai genitori, ma la mamma, con aria bonaria, ci risponde che “le nostre figlie ci hanno parlato bene di voi, hanno detto che siete due ragazzi bravi e colti, per cui per noi è un piacere…”. “Cultura? Non basta lavorare all’Istituto di Cultura per essere uomini di cultura!” irrompe il padre: risate generali. Io e Federico sottoscriviamo e condividiamo.
E mentre il padre torna a lavorare sullo splav (che è nuovo, ma da ristrutturare), Vanda e Lana lavano i piatti mentre la madre porge a me e a Federico due sdraio, un tavolino con dolci fatti in casa e due caffè turchi. Chiediamo se serve aiuto, ma ci intimano di rimanere seduti a goderci il sole manco fossimo autentici belgradesi. Ci guardiamo increduli pensando a quanto sia dura la vita degli insegnanti di italiano…a Belgrado! Sorridiamo pensando a chi passa le sue giornate archiviando fatture, facendo fotocopie e incrociando tabelle di excel, magari in un umido ufficio italiano. La musica tranquilla in sottofondo, il riflesso del sole sul lago, la pace regna sovrana. Al momento dei saluti arriva l’invito per la replica: “passate pure a trovarci, noi siamo spesso qua: la prossima volta portate il costume, abbiamo una barca e andiamo a fare un bagno al largo!”.
Pensare che avrei voluto scrivere un post sulla supponenza con la quale i serbi ridono quando gli si dice che “noi si va a Zagabria per il weekend”: “ma che ci vai a fare? E’ piccola, noiosa, non succede niente!” e poi i croati parlano sempre con la “gl” dicendo Mgliiiiieco e non Mleco (che poi significa latte). O della leggerezza con le quali i serbi ridono ogni volta che vengono nominate “Romania” e / o “Bucarest” (da queste parti non è chiaro che il mercato romeno, parte dell'Unione Europea, e' circa il quadruplo – sicuramente più del triplo – di quello serbo e che Bucarest, città con quattro linee di metropolitana, è circa il doppio di Belgrado.
Ma non ci sono riuscito. La Serbia è davvero un paese strano, senza mezze misure. Un paese immobile, statico, lento, rilassato, conservatore, contadino, provinciale. Ma anche un paese popolato da gente semplice, genuina e dal cuore grande e buono. Un paese relativamente povero ma al contempo sicuro e privo di criminalità. Un paese che vive e lascia vivere. Un paese che trova sempre una soluzione e non perde occasione per sorridere, per godersi la vita, per gioire delle piccole cose. Un paese pieno di giovani donzelle che, in tempo di primavera, complice il caldo, diventa difficile da gestire.
Un paese nel quale il nostro eroe ha addirittura ricominciato a fare sport, dopo la borsite degli scorsi mesi. Un paese che sabato sera al Plastic (come definirlo…Discoteca? Carnaio? Senza musica serba? Ci piace, anche se il celeberrimo omologo milanese sembra abbastanza diverso per impostazione e struttura) ho incontrato tre studentesse del gruppo principianti (sono incredibilmente riuscite ad azzardare una presentazione più che decente al Federico, colpito soprattutto dall’amica delle due). Un paese nel quale si pensa polemicamente che d'accordo che con i se e con i ma non si scrive la storia, tuttavia senza quel gol di mani di Adriano e senza la rapina di Siena...
martedì 21 aprile 2009
NUMERO DICIANNOVE
A SPASSO NEL TEMPO TRA LJUBLJANA E BELGRADO
Splende un bel sole e la temperatura è gradevole: atmosfera tranquilla, c’è aria di festa. Le strade sono gremite di polizia, che stende transenne, stoppando e deviando i veicoli: è sabato e si corre la maratona di Belgrado. Tutto sembra ordinato e tutto fila liscio sicché alle 10.30 ci si ritrova – prodotti della Pekara (forno) alla mano – a bere un caffè in un autogrill dell’autostrada, diretti in Croazia. Un po’ come in ritorno al futuro, con Federico nei panni di Doc e una 156 nera a fungere da macchina del tempo, nel giro di qualche ora (accompagnati dall’inconfondibile sound degli Elio e le Storie Tese) ci si ritrova a Zagabria, a circa 10 / 15 anni da Belgrado.
Pulita e ordinata, Zagabria è più Ljubljana che Belgrado: si respira un’aria europea, non solo per le bandiere blu con le stelle gialle che fanno capolino accanto a quelle locali. Privo di Jugo e Zastava (ma anche di Dacia) il traffico zagabrese sembra disciplinato nonostante noi ce la si metta tutta per rimediare una multa, tagliando involontariamente un semaforo palesemente rosso parcheggiando due minuti dopo in sosta vietata, ovviamente sotto gli occhi di un iper-ragionevole poliziotto che si limita a un perentorio rimprovero. Tram colorati e nuovi sfrecciano tra le fermate dotate di tecnologici pannelli che indicano i tempi di attesa delle varie linee: per fare il biglietto è sufficiente scrivere un sms. Elegantissimi anche i cani, tutti con collari e giacchine.
Sul tetto della chiesa di San Marco capeggiano i loghi del comune e della Croazia, disegnati da un caratteristico mosaico di tegole: siamo nella piazza principale della parte alta della città, da una parte c’è il Parlamento, dall’altra il Governo, mentre il comune dista poche decine di metri. A pochi passi dalle stanze dei bottoni, c’è un parco con una vista a 180° sulla città: le guglie della cattedrale tipicamente gotica (Santo Stefano d’Ungheria, che ricorda vagamente Notre Dame) dominano il panorama, composto essenzialmente da palazzi e palazzoni, edifici in mattoni e, qua e là, qualche chiesa (anch’esse in mattoni con campanili appuntiti: ricordano vagamente le chiese luterane danesi). Dal monumento equestre, fulcro della piazza Ban Jelačić – la piazza principale nella parte bassa – partono due caratteristiche viette piene di bar, pub, locali e ristoranti, fulcro della movida zagabrese: una si arrampica fino alla parte alta (in alternativa c’è una comoda funicolare) mentre l’altra porta alla cattedrale, attraversando la piazza del mercato. A pochi passi c’e’ un altro caratteristico mercato dei fiori.
Probabilmente il serbo non è la lingua migliore per approcciarsi alla gente, pena il siciliano “nzu” con il quale uno svogliato cameriere risponde alla domanda “possiamo pagare in Euro?”: benché seduti al tavolo di una pizzeria in pieno centro, il suddetto cameriere rifiuta anche di approcciarsi al tavolo per prendere le ordinazioni. Il senso di marketing non sembra esattamente sviluppato: se sabato pomeriggio molti negozi del centro sono chiusi manco fossimo a Copenhagen, la domenica l’iper-moderno centro commerciale rasenta il ridicolo, in quanto il complesso è aperto ma le saracinesche dei negozi sono sistematicamente abbassate.
Una delle prime connessioni che il viandante italico fa con la Croazia e’ il calcio, per cui uno dei primi nomi che vengono in mente è sicuramente quello di Zorro Boban: dopo una brillante carriera costellata di trionfi e trofei internazionali in maglia rossonera, Zvone ha deciso di appendere le scarpette al chiodo, ritirandosi dalla scena pubblica e dedicandosi prevalentemente alla famiglia. Ma anche alla gastronomia: il suo caffè-ristorante – che ovviamente porta il suo nome - propone prezzi ragionevoli, atmosfera elegante, servizio puntuale e – cosa fondamentale – cibo ottimo. Non lontano dal ristorante Boban, c’è la splendida piazza intitolata al Maresciallo Tito: e splendido è anche il teatro nazionale, circondato da giardini con bellissime composizioni floreali.
Il rientro a Belgrado avviene nella serata di domenica: dopo un buon piatto di pasta alle cozze, ci si è ritrovati a spalmare la Nutella su una colomba, regalata a Federico da un amico italiano. Ecco, questo è l’unico momento vagamente Pasquale del 2009: sia sull’ammiraglia a seguito dei ciclisti del Serbia Delta Tour (nel giorno in cui i cattolici ricordavano la Resurrezione) che nel weekend croato (nel giorno in cui toccava agli ortodossi celebrare la Pasqua), gli elementi Pasquali sono sostanzialmente mancati. Sarà per l’anno prossimo…
Splende un bel sole e la temperatura è gradevole: atmosfera tranquilla, c’è aria di festa. Le strade sono gremite di polizia, che stende transenne, stoppando e deviando i veicoli: è sabato e si corre la maratona di Belgrado. Tutto sembra ordinato e tutto fila liscio sicché alle 10.30 ci si ritrova – prodotti della Pekara (forno) alla mano – a bere un caffè in un autogrill dell’autostrada, diretti in Croazia. Un po’ come in ritorno al futuro, con Federico nei panni di Doc e una 156 nera a fungere da macchina del tempo, nel giro di qualche ora (accompagnati dall’inconfondibile sound degli Elio e le Storie Tese) ci si ritrova a Zagabria, a circa 10 / 15 anni da Belgrado.
Pulita e ordinata, Zagabria è più Ljubljana che Belgrado: si respira un’aria europea, non solo per le bandiere blu con le stelle gialle che fanno capolino accanto a quelle locali. Privo di Jugo e Zastava (ma anche di Dacia) il traffico zagabrese sembra disciplinato nonostante noi ce la si metta tutta per rimediare una multa, tagliando involontariamente un semaforo palesemente rosso parcheggiando due minuti dopo in sosta vietata, ovviamente sotto gli occhi di un iper-ragionevole poliziotto che si limita a un perentorio rimprovero. Tram colorati e nuovi sfrecciano tra le fermate dotate di tecnologici pannelli che indicano i tempi di attesa delle varie linee: per fare il biglietto è sufficiente scrivere un sms. Elegantissimi anche i cani, tutti con collari e giacchine.
Sul tetto della chiesa di San Marco capeggiano i loghi del comune e della Croazia, disegnati da un caratteristico mosaico di tegole: siamo nella piazza principale della parte alta della città, da una parte c’è il Parlamento, dall’altra il Governo, mentre il comune dista poche decine di metri. A pochi passi dalle stanze dei bottoni, c’è un parco con una vista a 180° sulla città: le guglie della cattedrale tipicamente gotica (Santo Stefano d’Ungheria, che ricorda vagamente Notre Dame) dominano il panorama, composto essenzialmente da palazzi e palazzoni, edifici in mattoni e, qua e là, qualche chiesa (anch’esse in mattoni con campanili appuntiti: ricordano vagamente le chiese luterane danesi). Dal monumento equestre, fulcro della piazza Ban Jelačić – la piazza principale nella parte bassa – partono due caratteristiche viette piene di bar, pub, locali e ristoranti, fulcro della movida zagabrese: una si arrampica fino alla parte alta (in alternativa c’è una comoda funicolare) mentre l’altra porta alla cattedrale, attraversando la piazza del mercato. A pochi passi c’e’ un altro caratteristico mercato dei fiori.
Probabilmente il serbo non è la lingua migliore per approcciarsi alla gente, pena il siciliano “nzu” con il quale uno svogliato cameriere risponde alla domanda “possiamo pagare in Euro?”: benché seduti al tavolo di una pizzeria in pieno centro, il suddetto cameriere rifiuta anche di approcciarsi al tavolo per prendere le ordinazioni. Il senso di marketing non sembra esattamente sviluppato: se sabato pomeriggio molti negozi del centro sono chiusi manco fossimo a Copenhagen, la domenica l’iper-moderno centro commerciale rasenta il ridicolo, in quanto il complesso è aperto ma le saracinesche dei negozi sono sistematicamente abbassate.
Una delle prime connessioni che il viandante italico fa con la Croazia e’ il calcio, per cui uno dei primi nomi che vengono in mente è sicuramente quello di Zorro Boban: dopo una brillante carriera costellata di trionfi e trofei internazionali in maglia rossonera, Zvone ha deciso di appendere le scarpette al chiodo, ritirandosi dalla scena pubblica e dedicandosi prevalentemente alla famiglia. Ma anche alla gastronomia: il suo caffè-ristorante – che ovviamente porta il suo nome - propone prezzi ragionevoli, atmosfera elegante, servizio puntuale e – cosa fondamentale – cibo ottimo. Non lontano dal ristorante Boban, c’è la splendida piazza intitolata al Maresciallo Tito: e splendido è anche il teatro nazionale, circondato da giardini con bellissime composizioni floreali.
Il rientro a Belgrado avviene nella serata di domenica: dopo un buon piatto di pasta alle cozze, ci si è ritrovati a spalmare la Nutella su una colomba, regalata a Federico da un amico italiano. Ecco, questo è l’unico momento vagamente Pasquale del 2009: sia sull’ammiraglia a seguito dei ciclisti del Serbia Delta Tour (nel giorno in cui i cattolici ricordavano la Resurrezione) che nel weekend croato (nel giorno in cui toccava agli ortodossi celebrare la Pasqua), gli elementi Pasquali sono sostanzialmente mancati. Sarà per l’anno prossimo…
giovedì 16 aprile 2009
NUMERO DICIOTTO
LA PASQUA? QUANDO ARRIVA ARRIVA!
Dopo una notte brava con il solito Federico, il solito raggio di sole ti centra impietosamente l’occhio sicché - anche se sono le 9.30 - il sonno se n’è bello che andato. Colazione veloce a base di wafer e latte, doccia e lavaggio a mano dell’abbigliamento intimo settimanale. Presi i test, si punta trg Republike (piazza della Repubblica): se normalmente sotto il cavallo di fronte al museo Nazionale ci si aspetta per gli appuntamenti, a mezzogiorno e mezza è prevista la partenza della Delta Tour, una corsa ciclistica che vede impegnati le categorie juniori e i seniori: il percorso prevede 115km e passa per Pancevo (ridente centro industriale - circa 100.000 abitanti - ubicato a 15km da Belgrado noto soprattutto per una raffineria bombardata dalla Nato e per un film horror recentemente girato tra i capannoni), Kort, Smerderevo (splendida località adagiata sul Danubio tra morbide colline di alberi da frutto in fiore, nota soprattutto per il castello della Despota Stefana) e ancora Belgrado, prima dell’arrivo in salita di Rakovica.
Dall’auto della giuria la corsa si segue che e’ un piacere: la corsa “dal vivo” a due passi dai ciclisti e’ veramente spettacolare, tra cronometri, collegamenti radio, ammiraglie, ambulanze e moto della polizia (il mitico Ranko, fact totum della federazione ciclistica, non sta quieto un attimo!). E’ spettacolare e divertente, specie quando i ciclisti scalano un paio di colli poco prima del traguardo. La catena del “mai avrei pensato di…” si è arricchita di un altro incredibile anello: anche perché la macchina è guidata da Milenkovic Senior, leggenda vivente del ciclismo yugoslavo prima e serbo poi, padre di Milenkovic Junior, discreto corridore oggi organizzatore del giro di Serbia. Entrambi i Milenkovic parlano italiano ed entrambi si sono dimostrati gentili e disponibili.
Il ciclismo in Italia, quantomeno come immagine, è uno sport “popolare” – forse lo sport “popolare per eccellenza” -, è uno “sport per tutti”, uno sport in cui molto spesso i campioni provengono da famiglie modeste e normali: uno sport che porta la festa e il colore nei paesi sperduti grazie alla carovana del Giro. Il ciclismo in Serbia e’ paradossalmente uno sport “di elite”, uno sport per ricchi. Perché? Bastano poche parole a un costruttore di biciclette per spiegarmi il perché: “Questa bicicletta 5000 Euro, stipendio Serbia 300 Euro, già buono stipendio 300 Euro: pochi ciclisti”. A Belgrado e in Serbia la tradizione ciclistica è molto debole: pedalare per le strade della capitale è un azzardo, in più manca sia una pista che un impianto indoor. Come logica conseguenza, la maggior parte dei circa 150 ciclisti tesserati dalla federazione, non proviene da Belgrado (che conta circa metà della popolazione serba).
L’arrivo della corsa è a due passi dal parco Ciukaricki, dove il giorno prima ha avuto luogo un’altra gara ciclistica, questa volta di cadetti e cadetti “fascia B”, in un circuito interno al parco: sorrido quando mi ritrovo al tavolo dei dirigenti della federazione ciclistica, con di fronte a me sessanta ciclisti in erba che pranzano, chiacchierano e sorridono. Mai avrei pensato di passare una Pasqua così, anche perché infondo a Belgrado non è ancora Pasqua in quanto, d’accordo con il calendario ortodosso, la Pasqua arriva una settimana dopo quella Cattolica.
Per cui la celeberrima gita fuori porta di Pasquetta ha luogo nella facoltà di architettura con sei splendide ore di lezione, quattro con i principianti e due con gli avanzati. Proprio in una pausa della lezione degli avanzati, Goran si fa coraggio e mi chiede di tradurgli alcune parole: “saccente”, “spiffero”, “spezzare”, “polentoni”. Mi insospettisco, così gli chiedo dove abbia trovato queste parole. Sorride e mi dice:”sul tuo blog”. Incredulo, gli chiedo come sia riuscito a trovarlo. “Semplice, cercavo il tuo indirizzo email, ho inserito il tuo nome si Facebook ed era la tua frase, così l’ho aperto”. E come non considerare le lezioni in università “il meglio” della vita belgradese?
Sono veramente fiero dei miei studenti – non solo di Goran, che son sicuro che starà leggendo queste righe -, specialmente dei principianti che migliorano di lezione in lezione. Tutti sembrano seguire con molto interesse i miei sproloqui, anche se i corsi non sono né curriculari né obbligatori. Lo fanno soprattutto perché sognano di andare a perfezionarsi in Italia, iscrivendosi a un corso di studi o in uno scambio Basileus (è l’omologo dell’Erasmus per l’area Balcanica / Mediterranea), ma lo fanno anche perché gli piace la nostra lingua o più semplicemente perché il corso è gratuito.
E nell’attesa che arrivi un’altra Pasqua – domenica, questa volta quella ortodossa – mi congedo, invitando ancora una volta l’Abruzzo a tener duro e a non mollare.
Dopo una notte brava con il solito Federico, il solito raggio di sole ti centra impietosamente l’occhio sicché - anche se sono le 9.30 - il sonno se n’è bello che andato. Colazione veloce a base di wafer e latte, doccia e lavaggio a mano dell’abbigliamento intimo settimanale. Presi i test, si punta trg Republike (piazza della Repubblica): se normalmente sotto il cavallo di fronte al museo Nazionale ci si aspetta per gli appuntamenti, a mezzogiorno e mezza è prevista la partenza della Delta Tour, una corsa ciclistica che vede impegnati le categorie juniori e i seniori: il percorso prevede 115km e passa per Pancevo (ridente centro industriale - circa 100.000 abitanti - ubicato a 15km da Belgrado noto soprattutto per una raffineria bombardata dalla Nato e per un film horror recentemente girato tra i capannoni), Kort, Smerderevo (splendida località adagiata sul Danubio tra morbide colline di alberi da frutto in fiore, nota soprattutto per il castello della Despota Stefana) e ancora Belgrado, prima dell’arrivo in salita di Rakovica.
Dall’auto della giuria la corsa si segue che e’ un piacere: la corsa “dal vivo” a due passi dai ciclisti e’ veramente spettacolare, tra cronometri, collegamenti radio, ammiraglie, ambulanze e moto della polizia (il mitico Ranko, fact totum della federazione ciclistica, non sta quieto un attimo!). E’ spettacolare e divertente, specie quando i ciclisti scalano un paio di colli poco prima del traguardo. La catena del “mai avrei pensato di…” si è arricchita di un altro incredibile anello: anche perché la macchina è guidata da Milenkovic Senior, leggenda vivente del ciclismo yugoslavo prima e serbo poi, padre di Milenkovic Junior, discreto corridore oggi organizzatore del giro di Serbia. Entrambi i Milenkovic parlano italiano ed entrambi si sono dimostrati gentili e disponibili.
Il ciclismo in Italia, quantomeno come immagine, è uno sport “popolare” – forse lo sport “popolare per eccellenza” -, è uno “sport per tutti”, uno sport in cui molto spesso i campioni provengono da famiglie modeste e normali: uno sport che porta la festa e il colore nei paesi sperduti grazie alla carovana del Giro. Il ciclismo in Serbia e’ paradossalmente uno sport “di elite”, uno sport per ricchi. Perché? Bastano poche parole a un costruttore di biciclette per spiegarmi il perché: “Questa bicicletta 5000 Euro, stipendio Serbia 300 Euro, già buono stipendio 300 Euro: pochi ciclisti”. A Belgrado e in Serbia la tradizione ciclistica è molto debole: pedalare per le strade della capitale è un azzardo, in più manca sia una pista che un impianto indoor. Come logica conseguenza, la maggior parte dei circa 150 ciclisti tesserati dalla federazione, non proviene da Belgrado (che conta circa metà della popolazione serba).
L’arrivo della corsa è a due passi dal parco Ciukaricki, dove il giorno prima ha avuto luogo un’altra gara ciclistica, questa volta di cadetti e cadetti “fascia B”, in un circuito interno al parco: sorrido quando mi ritrovo al tavolo dei dirigenti della federazione ciclistica, con di fronte a me sessanta ciclisti in erba che pranzano, chiacchierano e sorridono. Mai avrei pensato di passare una Pasqua così, anche perché infondo a Belgrado non è ancora Pasqua in quanto, d’accordo con il calendario ortodosso, la Pasqua arriva una settimana dopo quella Cattolica.
Per cui la celeberrima gita fuori porta di Pasquetta ha luogo nella facoltà di architettura con sei splendide ore di lezione, quattro con i principianti e due con gli avanzati. Proprio in una pausa della lezione degli avanzati, Goran si fa coraggio e mi chiede di tradurgli alcune parole: “saccente”, “spiffero”, “spezzare”, “polentoni”. Mi insospettisco, così gli chiedo dove abbia trovato queste parole. Sorride e mi dice:”sul tuo blog”. Incredulo, gli chiedo come sia riuscito a trovarlo. “Semplice, cercavo il tuo indirizzo email, ho inserito il tuo nome si Facebook ed era la tua frase, così l’ho aperto”. E come non considerare le lezioni in università “il meglio” della vita belgradese?
Sono veramente fiero dei miei studenti – non solo di Goran, che son sicuro che starà leggendo queste righe -, specialmente dei principianti che migliorano di lezione in lezione. Tutti sembrano seguire con molto interesse i miei sproloqui, anche se i corsi non sono né curriculari né obbligatori. Lo fanno soprattutto perché sognano di andare a perfezionarsi in Italia, iscrivendosi a un corso di studi o in uno scambio Basileus (è l’omologo dell’Erasmus per l’area Balcanica / Mediterranea), ma lo fanno anche perché gli piace la nostra lingua o più semplicemente perché il corso è gratuito.
E nell’attesa che arrivi un’altra Pasqua – domenica, questa volta quella ortodossa – mi congedo, invitando ancora una volta l’Abruzzo a tener duro e a non mollare.
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