mercoledì 5 novembre 2008

NUMERO UNO

BUONGIORNO GODOT

Considerando che la gravidanza degli elefanti dura venti mesi, considerando che gli ebrei ancora stanno aspettando il Messia, considerando che l’Inter è riuscita a rivincere ancora dopo la caduta del muro di Berlino, considerando che Heinstein considerava lo spazio ma soprattutto il tempo come fenomeni relativi, direi che un mese e tre giorni è un attesa ragionevole per il primo numero del Corriere della Serbia.

Un mese abbondante è infatti passato da quando, in un mattino di ottobre, uscivo dalla stazione dei treni di Belgrado con armi e bagagli, pronto ad affrontare la Serbia e le sue insidie.

Belgrado. Comodamente adagiata su morbidi colli, giusto sulla confluenza tra Sava e Danubio, la città è un susseguirsi di palazzi moderni ed edifici d’epoca, catapecchie e grattacieli, di diversi stili; una serie di chiese e chiesette – tra cui spicca senz’altro la cattedrale di Santa Sava - rendono la città decisamente carina. I ponti che la collegano con la moderna Novi Beograd rendono lo scenario notturno veramente stupendo.

In un mese abbondante di permanenza ho scoperto una cosa sola: il “fattore B”. Ogni giorno che trascorri a Belgrado, ogni mattina quando cominci la giornata, non appena apri gli occhi, già sai che c’è qualcosa che non funzionerà, ma a priori non sai mai cosa sia. Generalmente è il tram che si fa attendere per ore o che non passa proprio, ma guai a sottovalutare tutto il resto: Belgrado è una città ricca di insidie, dietro ogni angolo, dietro ogni apparentemente insignificante dettaglio. La pioggia ("buona fortuna" se hai bisogno di un ombrello e sei lontano dal centro), l’orario di chiusura di un ufficio, la mancanza di un anglofono quando serve, un’assurda procedura spiegata nel dettaglio e con novizia di particolari rigorosamente in serbo, sei ore per una lavatrice, l’acqua calda che, in un insulso pomeriggio, decide sorprendentemente di non uscire dalla tua doccia. Generalmente, è sempre quella cosa alla quale non penseresti mai, specialmente in quel preciso momento.

I belgradesi, dal canto loro, si impegnano a fondo per trovare soluzioni alle avversità relative al contesto e ce la mettono tutta per aiutare lo straniero in difficoltà a volte fermano i passanti chiedendo informazioni per conto degli sciagurati forestieri, altre volte suggeriscono perverse strategie per by-passare i problemi, in altri casi risolvono automaticamente i problemi “alla serba” per loro, “alla bersagliera” per noi.

Ma lo straniero è in costante difficoltà. Il vero problema sembra essere uno: le informazioni non sono mai attendibili. Mai. Nemmeno quando autisti e controllori ti suggeriscono mezzi pubblici e fermate. Nemmeno relativamente alle loro linee. Nemmeno addetti degli info-point turistici quando indicano un particolare ufficio. "Do you have an umbrella?", risposta: "No, it's a supermarket here!". Tutto bislacco, ma tutto vero. Va detto però che non sono mai scortesi, sorridono sempre e in modo spontaneo, genuino, sincero. Sono aperti al dialogo e disponibili, come raramente mi era capitato di trovare in precedenza: non vanno mai di fretta, prendono sempre tutto alla leggera e con calma estrema.

A sentir loro, sono sempre impegnati e indaffarati, anche se in realtà è dura capire cosa facciano. Anzi, a guardarli, troppo spesso sembrano degli autentici rimbecilliti. Faccia da pesce lesso, grinta da pianta grassa, riflessi da bradipo: il belgradese medio risponde a qualsiasi domanda con una semi-muggito effettuato a bocca aperta e con la lingua un po’ fuori, a mezza via tra la “o” e la “e” e la “a”. Non parlo ancora così bene serbo da capire che cosa significhi. Tutti mi dicono che la città vive di notte e che “se non hai visto la vita notturna qua, non hai mai visto Belgrado”. E me lo auguro, specialmente per loro, osservandoli di giorno: spero che almeno di notte effettivamente si divertano. Si riempiono la bocca con questi “Chiamami se hai bisogno di aiuto” oppure “ti chiamo la settimana prossima così organizziamo”, ma troppo spesso anticipano il non rispondere alla tua chiamata (nel primo caso) o al non trillare del tuo cellulare (nel secondo).

Normalmente un giornale che si rispetti comincia con un editoriale dove vengono spiegate le ragioni che hanno indotto a fondare una nuova testata e gli obiettivi che ci si prefigge. Il Corriere della Serbia invece comincia a caso. E in ritardo, per giunta. E allora ecco la premessa a una pagina di sproloqui: ho ottenuto una borsa di studio dal governo serbo per essere post-graduated researcher alla facoltà di Scienze Politiche dell’università di Belgrado. Mi occuperò del valore sociale dello sport, con il supporto dell’ISCA – International Sport and Culture Association (l’ong per la quale lavorai in Danimarca).

La seconda domanda, meno banale, riguarda il perché solo ora, se a Milano non mi si vede da un po’. Ebbene sono a Belgrado dal 13 ottobre, ma le prime settimane, tra lavoro, documenti, tram che non passano (più un rientro forzato a casa-Italia per un colloquio lavorativo) sono servite a darmi il benvenuto nella seconda città più grande dei Balcani. Qua serve una tessera per far tutto, ma se il sistema danese ti fa aspettare una vita per ottenere la yellow card, passe par tout scientificamente polifunzionale, il sistema serbo ti fa sudare sette camicie per ottenere un numero difficilmente estimabile di singole tessere monofunzionali dall’efficienza dubbia. Se la prima settimana se n’è andata per collezionare le tessere, la seconda è partita per la fiera del libro, dove ho avuto modo di lavorare e di incontrare anche Tadic, a passeggio tra gli stand. Se la terza ha segnato il mio primo contatto con l’università, la quarta è stato un rientro forzato in Italia per un interessante colloquio. Il tutto è stato condito dalla terribile logistica balcanica di cui sopra, sicché la quinta se n’è andata per la preparazione del primo numero. Cui seguirà il secondo, in meno di cinque settimane: promesso.

Parola di serbo.

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